La finale più bella di un brutto Mondiale

Calcio.È inutile stare a cercare chissà quali paroloni per descrivere quello che abbiamo visto nel pomeriggio di domenica 18 dicembre. È, semplicemente, lo sport più bello di tutti. Perché solo il calcio può regalare tre ore così, con due fuoriclasse che si affrontano, con ogni piano tattico che salta per aria, con una partita che sembrava decisa per l’Argentina che si ribalta completamente fino a farti pensare che ormai vincerà la Francia.

Poi no, la ribalta ancora l’Argentina e ancora la Francia la riprende. E all’ultimo minuto del recupero del secondo supplementare, prima la Francia e poi l’Argentina falliscono il gol del 4-3. Benedetto, a quel punto, per la squadra che avrebbe vinto. Maledetto per tutti noi, che ci saremmo visti sottrarre il thriller dei calci di rigore.

Questi i fatti. Ora il difficile è andare in fuga dalla retorica. Dalle leggende, dalle storie, dalle partite più belle di tutti i tempi. Da tutto il prêt à porter che le tastiere scongelano per le grandi occasioni. In verità, non serve la retorica per incorniciare una partita così: basta descriverla. E non servono aggettivi per aggiungere commozione a ciò che abbiamo visto, giacché l’unico a non aver versato una lacrima è stato quello che ti saresti aspettato crollare, Leo Messi.

Lui che in carriera ha vinto tutto con il club e fallito tutto con la Nazionale. Lui che con la «camiseta» del suo Paese aveva in sospeso tutti i conti possibili, ha saldato ogni debito all’ultimo respiro. Segnando i rigori, segnando un gol di destro dopo una carriera costruita sul sinistro, o soprattutto sul sinistro. Lui, con quel 10 sulle spalle che da Salta a Ushuaia vuol dire solo una cosa: Diego, il 10 che la coppa l’aveva sbarcata a Baires, 36 anni fa. Leo Messi è nato l’anno dopo, da allora aveva visto solo altre nazionali alzare la coppa, e tutta la colpa era sempre la sua. Debito chiuso, e quei sorrisi senza lacrime dicono tutto sulla maturazione di una pulce che diventando uomo ha cancellato anche l’ultimo - se non l’unico - suo limite.

Non riguardava l’Italia, questa finale, ma era quasi impossibile non simpatizzare umanamente per una vittoria dell’Argentina. Anche perché, da bergamaschi, non capita spesso di vedere un ex giocatore nerazzurro guidare una nazionale nella finale mondiale, non capita spesso di vedere un ex capitano atalantino in panchina pronto a subentrare, e un ex difensore titolare in campo. Tre atalantini della storia recente- in questo caso non si diventa mai ex - sono diventati campioni del mondo. La Francia ha in mano il futuro, Mbappé solleverà tante altre coppe. Questa sembrava spinta nelle braccia di Messi dai cuori di tutti.

Che paradosso, però. Una finale che sarà impossibile dimenticare, e che certamente finirà dentro le sceneggiature di film e serie tv, arriva in fondo al mondiale più discusso. Quello assegnato al Qatar con manovre torbide, quello costato la vita a migliaia di lavoratori, quello che ha impedito, sugli stadi, di manifestare il proprio libero pensiero. La finale più bella in fondo al Mondiale politicamente più brutto e calcisticamente non memorabile. Un Mondiale che fatta salva la favola del Marocco ci ha consegnato la crisi di Germania e Spagna, lo psicodramma del Brasile e la solita Inghilterra che anche stavolta vincerà la prossima. Avesse vinto la Francia, sarebbe stato tutto scontato. Invece il calcio è fatto così: disegna storie con curve che non ti aspetti. Non sarebbe, altrimenti, lo sport più bello e seguito al mondo.

Ora, mondiale in archivio. Panettone e regali e poi tornerà, in cima ai pensieri, il calcio nostrano. Quello dove da ieri non c’è più un capo degli arbitri, dove le società alla fine otterranno dal Governo di pagare le tasse in 60 comode rate, perché le loro casse sono vuote. Quello dove i bilanci si scrivono a piacimento. Ma ci penseremo. Per ora, tutti gli occhi sono per questa foto. Que Viva Argentina.

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