La luce che arriva
dal bene ricevuto

Non c’è consolazione che basti, non c’è interpretazione che tenga: di fronte a chi sta facendo l’esperienza del dolore e della sofferenza, e in particolare della morte della persona cara, non c’è consolazione/interpretazione che possa pretendere di dire «no, ti sbagli, non è vero che tutto è negativo, a ben vedere c’è anche del positivo, vedrai che tutto andrà bene». Tale pretesa è ridicola. Certo, a volte un’esperienza dolorosa si dimostrerà in un secondo tempo come qualcosa di fecondo ed ultimamente di positivo; ma «ora», mentre soffro e sono in pena, mentre la separazione dall’amato mi esclude da ogni possibile dialogo con lui, nessuno può essere così arrogante e violento, o nella migliore delle ipotesi così infantile, da dirmi che la mia esperienza non è la mia esperienza, che io mi sto ingannando sulla mia stessa sofferenza.

E allora, «ora», che cosa fare? Ma quello che migliaia di persone stanno già facendo: innanzitutto bisogna operare con tutte le forze per alleviare il dolore altrui e per aiutare chi soffre. Non c’è filosofia che tenga; chi, in una simile situazione, è così in malafede se non addirittura così perverso da prendere tempo con quesiti del tipo «che cos’è il bene, di quale bene si tratta? Chi è il mio prossimo?».

Dunque, bisogna agire e per fortuna lo si sta facendo. Ma forse, in questa stessa «ora», si deve fare anche qualcos’altro, bisogna avere il cuore e la forza di mettere in campo anche un altro tipo di aiuto. Bisogna aiutare, bisogna aiutarsi, bisogna farsi aiutare affinché una simile esperienza negativa (condizione) non diffonda il negativo, non fecondi quella disperazione che finisce per trasformarsi in una sorta di giustificazione della rabbia e del risentimento nei confronti degli altri e più in generale della vita stessa (obiezione). È questo l’unico «sguardo positivo» che «ora», senza vergognarsi, è lecito avere: non si tratta di banalizzare ottimisticamente la sofferenza, ma di sperare, una volta riconosciuta la ferita del negativo, che quest’ultimo non fecondi, operando, anche in questo caso con tutte le forze possibili, affinché esso non si trasformi nella sola luce con la quale illuminare la propria vita e tutta la realtà. È ciò che teme Dio; e infatti Egli prega l’uomo implorandolo: «Non ho detto alla discendenza di Giacobbe: cercatemi in un’orrida regione!» (Is, 45, 19).

Camus, in «La peste», descrivendo la seconda predica di padre Paneloux: «Chi poteva affermare, infatti, che l’eternità di una gioia possa compensare un attimo del dolore umano? Non sarebbe sicuramente un cristiano, il cui Maestro ha conosciuto il dolore nelle membra e nell’anima. No, il Padre sarebbe rimasto ai piedi del muro, fedele al supplizio di cui la croce è il simbolo, di fronte alla sofferenza di un bambino. E avrebbe detto senza paura a coloro che quel giorno lo ascoltavano: “Fratelli miei, il momento è venuto. Bisogna tutto credere o tutto negare”. E chi mai, tra di voi, oserebbe tutto negare?». Di conseguenza, poiché «la religione del tempo di peste non poteva essere la religione di tutti i giorni», osserva: «Il cristiano non avrebbe risparmiato nulla e, chiuse tutte le uscite, avrebbe toccato il fondo della scelta sostanziale. Avrebbe scelto di tutto credere per non essere ridotto a tutto negare (...) Non si trattava di rifiutare le precauzioni, l’ordine intelligente che una società introduceva nel disordine d’un flagello; non bisognava ascoltare i moralisti che dicevano: bisogna mettersi in ginocchio e abbandonare ogni cosa. Bisogna soltanto cominciare a camminare in avanti, nelle tenebre, un po’ alla cieca, e tentare di fare del bene. Ma per il resto bisognava restare, e accettare di rimettersene a Dio, anche per la morte dei bambini, e senza cercare un personale ausilio (...). No, non c’era via di mezzo; bisognava ammettere lo scandalo, in quanto ci era necessario scegliere di odiare Dio o di amarlo. E chi oserebbe scegliere l’odio verso Dio?».

Più sopra dicevo che non si tratta di banalizzare ottimisticamente la sofferenza ma di sperare ch’essa non si diffonda trasformandosi nella sola luce con la quale illuminare la propria vita e tutta la realtà. Ma come è possibile sperare, e soprattutto cosa significa operare affinché la sofferenza non muti in disperazione trasformandosi così da condizione ad obiezione? È la questione fondamentale alla quale nessuno può pretendere di dare una risposta definitiva. Tento tuttavia un’ipotesi. Camus scriveva: «Bisogna cominciare a camminare in avanti, nelle tenebre, un po’ alla cieca, e tentare di fare del bene»; ma forse bisogna anche sapersi guardare indietro e riconoscere il bene ricevuto, forse per andare avanti nelle tenebre e tentare di fare il bene bisogna soprattutto riconoscere la luce che comunque continua a provenire dal bene ricevuto. La speranza, a differenza dell’ottimismo che ha origine nella volontà, nella mia volontà, trova la sua fonte nella memoria, nel rinvio all’altro: è stato possibile, sono stato amato, ecco perché, forse, lo sarà ancora. È il coraggio che muove l’ipotesi biblica: non cercatemi in un’orrida regione poiché io ti ho originariamente posto in un magnifico giardino.

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