La morte di Vincent
Una lezione di vita

La morte di Vincent Lambert e la sua storia da ieri mattina sono diventate una lezione. Può essere un paradosso al di là delle dichiarazione di guelfi e ghibellini. Ma nessuno può negare che la vicenda costringe a discutere e a cercare di capire cosa avviene in territorio sconosciuto e quali siano gli argomenti etici, politici, e tecnici sui quali confrontarsi nella propria coscienza e sul lato pubblico. Il caso personale e pubblico insieme dovrebbe essere sfilato dalle polemiche e favorire un approfondimento sulla medicina e i suoi limiti, sul significato di «vita puramente biologica», sulla qualità della vita e sulla sua indisponibilità.

Per rispondere insomma alla domanda capitale: il diritto alla vita fa parte delle libertà individuali? La morte di Vincent può essere preziosa se fa avanzare una coscienza, anche giuridica, se sposta il confine un po’ più in là con argomentazioni lontane dalle polemiche da social network. Certamente tale dibattito sarebbe dovuto scattare ancor prima della sua morte. Il fatto che tutto ciò non sia accaduto è già, come ha scritto monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita, «una sconfitta per la nostra umanità».

Eppure se quella morte ora non lascia in eredità la consapevolezza che il compito primario è di tornare a pensare, la sconfitta sarà doppia. C’è una responsabilità desolante e sulla quale anche bisognerà soffermarsi. È la responsabilità dei media che hanno sovraesposto la famiglia di Vincent, divisa come ogni famiglia in occasioni tragiche, ma narrata come luogo di uno scontro ideologico tra scelte laicissime (della moglie e dei fratelli) e quindi politicamente corrette, e scelte clericalissime (dei genitori) e quindi oscurantiste, indegne della Francia. Come ha sottolineato il segretario dei vescovi francesi, mons. Thierry Magnin, la famiglia aveva «diritto alla meditazione al rispetto alla calma». Invece sono state le tensioni esterne a condizionare il processo decisionale delicatissimo tra il team dei medici e i parenti. La situazione è precipitata quando la battaglia si è arricchita delle armi legale e non più solo verbali e trasformata in altra cosa da calcoli politici e giuridici.

In Francia qualcuno ha detto che l’«affaire Lambert farà progredire il nostro sguardo sulla morte». Il punto sta proprio qui, come il paradosso che suggerisce la vicenda, perché è esattamente il contrario ciò che deve avvenire: lo sguardo che deve progredire è quello sulla vita e non sulla morte.

Papa Francesco nel tweet di ieri invita a ragionare sulla vita e sulla nostra responsabilità: «Non costruiamo una civiltà che elimina le persone la cui vita riteniamo non sia più degna di essere vissuta: ogni vita ha valore, sempre». Il giudizio impietoso sulla qualità della vita di Vincent non è degno di una civiltà dei diritti dei più fragili. E non è una questione di Vangelo. Infine va aperto il capitolo eticamente drammatico dell’analisi sulla cosiddetta «vita puramente biologica», vero nodo della vicenda di Vincent.

Il padre Bruno Saintot, gesuita e direttore del Centro di etica biomedica di Sèvres, ha spiegato che «la posta in gioco è il modo in cui gestiamo gli effetti collaterali della vittorie della biotecnologia, in particolare gli stati limiti a cui non era possibile arrivare 40 anni fa»: «Io sono molto scettico quando alcuni parlano di vita puramente biologica. Cosa significa? Quando l’umanità lascia l’uomo?».

Rispondere destreggiandosi tra le mille verità indotte dalla sovramediatizzazione da algoritmo non è un buon servizio. C’è un livello in più da scalare, quello di una teologia per il nostro tempo.

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