La nostalgia per una vita
che si apre verso l’altro

C’è una parola che viene da lontano incrostata dentro alle nostre parole migliori, quelle che hanno il fascino fatale del futuro che avanza. Perché nel linguaggio, qualcosa della verità della vita si deposita sempre: le parole dicono e fanno esistere le cose. Basti pensare che noi siamo anche le parole violente o ospitali che altri hanno detto e dicono di noi. Siamo anche le parole che consegniamo agli incontri e alle situazioni più o meno facili che la storia ci mette davanti. Non per niente nella Bibbia la Creazione avviene con un atto di parola, con Dio che dice parole che inventano un domani possibile, un posto in cui si può abitare volentieri. Le parole esistenza, educazione, esperienza sono quelle che i discorsi degli uomini hanno levigato per interi millenni, per inventare un domani possibile.

Sono le parole per dire che il futuro, misterioso e ladro, può essere accompagnato e non cinicamente subìto. Per descrivere l’avventura del trovarsi al mondo e il senso della vita, per afferrare il domani e tentare di dargli una forma credibile, inaugurando una possibilità bella per le nuove generazioni: esistere, costruire un’esperienza autenticamente umana tra le tante figure di compimento possibile, educare chi si vuole essere in mezzo agli accadimenti che lasciano cicatrici e aprono spiragli di rinascita.

E c’è una parola staminale che lega tutto questo; che afferra tutta questa energia di vita che scorre dentro l’esistenza, l’educazione e l’esperienza. È la parola di origine greco-latina “E-” (e con il trattino). E-sistere, e-ducare, e-sperienza. Forse, una delle parole più potenti che abbiamo: per questo così asciutta ed essenziale, così permeabile da trovarsi sempre legata ad altro. “E-” vuol dire «da», in greco. Indica un «fuori», un «altro», un «altrove».

«E-sisto», cioè «sto qui», ma da «altrove», grazie a qualcuno che non sono io, che è «altro» da me, dal mio mondo e dal mio orizzonte. Il mio essere al mondo si appoggia su ciò che non mi appartiene, che non mi sono costruito io, ma che può essere solo accolto, scoperto e ricevuto: il sole, il panorama, le amicizie, le occasioni che il tempo riserva portano una bellezza che nessuno può prodursi o può comprarsi da solo. L’e-sistenza dice che c’è un debito di gratitudine per il nostro «stare qui», un debito contratto con tutto ciò che sta fuori e che rende viva la vita: una certa riverenza nei confronti degli altri, del mondo e della storia.

«E-ducare» funziona allo stesso modo. Significa letteralmente «Sono condotto fuori». Dalle mie chiusure, dalle mie reazioni spontanee, dalla tirannia di mondi ideali in cui rimarrei a perdermi per evitare le richieste di una vita che domanda a ciascuno di versare la propria quota di lacrime e sudore. Cacciati fuori dai citofoni che risvegliano il desiderio di assopirsi volentieri sul divano del non senso: c’è una chiamata che risuona dentro a cose come l’innamoramento, la sofferenza degli altri, il bisogno di fare qualcosa di importante, il futuro di chi posso e voglio essere… Educare ha a che fare con questa uscita dal guscio narcisistico per essere lanciati verso il fuori, l’altro, l’altrove. Oltre la prigionia dell’ego c’è un mondo che merita.

«E-sperienza», come diceva il filosofo Michel Serres, unisce «e-» e «per»: un’azione che tiene insieme un’uscita «da» e una direzione «per», come accade in tutti i viaggi. Non si parte che a condizione di lasciare qualcosa e di muoversi attraverso spazi di novità. Una scoperta anche di se stessi, questo è il fare esperienza, che ha all’origine un distacco, una perdita, uno strappo. C’è un’uscita che sa di rischio e di azzardo. Sa di vita. Avere esperienza significa dunque essere stati disposti a molte partenze, a molti istanti vuoti, a cercare senza sapere se si avrebbe trovato davvero.

«E-». La parola che risuona con forza nei margini della giornata della vita, perché qui dentro gli uomini hanno condensato ciò che merita di essere custodito e protetto della vita. Da sempre. Contro il rischio di pensare che vivere coincida con l’essere vivi, con l’avere del tempo, con la cartella clinica e biologica impeccabile, la storia ha pensato di pronunciare parole pericolose, che sanno di altro, di fuori e di oltre. La vita diventa tale quando fa spazio a questo, quando assume l’azzardo di un di più. Di quell’e con il trattino. Non è forse di questa vita che sentiamo nostalgia?

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