La nuova Europa
e il nodo salva Stati

Ursula von der Leyen è la nuova presidente dell’Unione europea. Il fine dichiarato del suo mandato è la lotta al cambiamento climatico. Emerge il desiderio di coordinare la politica economica dei Paesi membri nell’innovazione e negli investimenti cosiddetti green. Compito assegnato a Paolo Gentiloni, al quale la presidente ha espresso direttamente la sua stima. Un riferimento chiaro a chi ha criticato la scelta di un italiano per un dicastero economico di peso.

Una maggiore integrazione appare ineludibile a fronte delle sfide internazionali e l’idea è di demandare ad un organo tecnico esterno alla Commissione la risoluzione dei problemi legati agli stress finanziari. Si chiama Mes ed ha il nome che compete ai nostri tempi, un acronimo. L’European stability mechanism dovrebbe presiedere appunto alla stabilità in Europa. Traduzione: fare la guardia su chi ha squilibri di bilancio, spaventare ed al contempo tutelare. Chi persiste nella sua condotta di allegra indisciplina verrà ammonito e poi punito, chi si attiene alle regole non avrà nulla da temere.

Un’asetticità provocatoria per un Paese come il nostro. A fronte di un debito oltre il 130% del Pil, tendente a crescere per i prossimi anni, è come se l’ufficiale giudiziario bussasse alla porta. Il Mes nasce nel settembre del 2012 e, come ha ribadito il ministro Gualtieri nell’audizione in Commissione finanze, è stato oggetto di discussione in questi anni. I tedeschi intendevano farne uno strumento per condizionare la politica economica dei Paesi in crisi ma non gliel’hanno fatta. Ha prevalso la linea di chi considera la ristrutturazione del debito una condizione di eccezionalità. La dotazione di questo organismo è suddivisa in maniera proporzionale all’importanza economica dei Paesi dell’eurozona: con quasi il 27% del capitale la Germania è il primo contributore, e con ogni probabilità non usufruirà mai degli aiuti. Una garanzia che permette al Mes di raccogliere sui mercati finanziari fino a 700 miliardi di euro.

Da qui la domanda: se la Germania non ne farà uso perché mette i capitali a disposizione? La risposta è che si tratta di uno strumento intergovernativo dove il potere è dato dal peso esercitato dallo Stato. Condizionare un eventuale sostegno del Fondo salva Stati a piani di riforme molto impopolari, come tagli alla spesa pubblica, alla sanità o alle pensioni, è un’arma che a Berlino desiderano mettere ben in vista sul tavolo. Con la riforma del Mes discussa a partire dal 2018 i Paesi che intendono avere una linea di credito devono rispettare i parametri di Maastricht, il che vuol dire che 10 Stati su 19 membri dell’eurozona, Italia compresa, ne saranno esclusi. Per contro i Paesi con forte debito hanno invece ottenuto il «backstop» per il Fondo di risoluzione unico, un fondo finanziato dalle banche per aiutare istituti finanziari in difficoltà. Il che fa accendere la lucina rossa di Deutsche Bank sull’orlo del fallimento sommersa dalla massa di titoli tossici che pervade i suoi bilanci.

Le banche, soprattutto quelle della periferia d’Europa. diventeranno così più sicure a patto che al governo italiano riesca di far mantenere nei bilanci bancari i titoli di Stato alla loro attuale condizione e cioè «risk free». Se dovessero essere valutati in rapporto al debito del Paese emittente sarebbe un deprezzamento che porta a liberarsi del titolo o a prezzarlo in modo penalizzante. Questa è la battaglia da condurre nei prossimi mesi. Il resto è fuoco di retroguardia. Certo i membri tedeschi del Mes devono rendere conto al Bundestag e quindi rappresentano il loro interesse nazionale. Ma se la Germania è più forte in Europa è perché gli altri sono più deboli.

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