La pandemia polarizza
istituzioni e società

«Nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime e sudore». Con queste parole Winston Churchill - il 13 maggio 1940 in un drammatico discorso alla nazione - incitò il popolo inglese a resistere all’attacco nazista che rischiava di travolgere l’Europa, trasformandola in un unico Paese sottoposto alla dittatura hitleriana. Nel suo appello lo statista fece leva su valori fortemente sentiti nel popolo britannico: l’orgoglio, la tradizione liberale (sia pure nelle vesti di un sistema monarchico), il rifiuto del totalitarismo. Churchill fu osannato dai suoi connazionali, che accettarono di buon grado di essere partecipi di uno sforzo collettivo, portato fino al sacrifico estremo, in nome dell’obiettivo di preservare la democrazia. La convinta adesione della stragrande maggioranza degli inglesi alla prospettiva di sacrifici necessari per resistere e risorgere fu la giusta risposta ad un forte impianto etico dell’indirizzo politico.

A confronto di un siffatto scenario non è privo di senso chiedersi quali siano oggi le radici del consenso politico. In particolare nelle democrazie che devono (o dovrebbero) custodire come bene supremo i principi essenziali sui quali si reggono le società democratiche. Occorre domandarsi, senza pretesa di dare risposte risolutive, cosa resti di quell’afflato che, anche nel nostro Paese, ha fatto da collante nei momenti più bui e difficili della convivenza sociale. Tempi nei quali la politica – pur nelle profonde ma legittime differenze di opinioni – era basata su un comune sentire: operare per il bene comune, per vivificare e rinsaldare i valori fondanti della democrazia. Nello scorrere i calendari della vita politica italiana fino agli anni ’70 dello scorso secolo si ritrova una concezione dell’agire politico come servizio alla collettività. Non che mancassero aspetti negativi e scelte sbagliate, ma l’insieme dell’agire politico era basato su criteri valoriali. Analogamente si può dire del tessuto civile: una popolazione - benché non priva di difetti - conscia della necessità di tenere presenti valori condivisi.

Quello che diffusamente (magari impropriamente) chiamiamo populismo può essere rintracciato nella progressiva e quasi inarrestabile tendenza a privilegiare soltanto il proprio tornaconto, a ritenere il rispetto delle regole un fastidio, se non addirittura un comportamento da sciocchi. L’odio che trasuda sui social ne è una manifestazione estrema, ma non limitata ai falchi del web. È il dialogo stesso ad essere considerato oggetto da museo. Con tristezza si deve prendere atto che su un sentiero analogo è ormai attestato (salvo eccezioni) il confronto politico. Sono sempre più numerose le apparizioni di burattini della politica, in grado solo di recitare slogan privi di significato, senza contraddittorio. L’intreccio dei due fenomeni - che si alimentano reciprocamente: «Non occorre che ciò che dico sia ragionevole, lo dico e basta» - produce il soffocamento sia di un’ordinata e ragionevole azione di guida e di indirizzo da parte dei decisori politici, sia una diffusa e utile attitudine dei cittadini a rispettare le regole poste da chi governa.

La pandemia in Italia - come in molti altri Paesi - ha polarizzato qualità e difetti, vizi e virtù, tanto della società quanto delle istituzioni. Governanti e governati hanno mostrato, in trasparenza e in filigrana, tanto gli aspetti più luminosi quanto le croniche debolezze del tessuto civile di un popolo. Il sostrato effettivo dei criteri di azione dei poteri pubblici, dell’agire quotidiano dei cittadini è diventato visibile a tutti. Nella sua crudezza di nobiltà e di miserie. In questa polarità estrema possono prendere il sopravvento gli aspetti più deteriori, mentre i gesti di generosità, il buon esempio, la rettitudine può progressivamente perdere terreno. È questo il rischio più grave. In particolare quando si viene chiamati ad accettare sacrifici.

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