La pessima Repubblica
degli aiutini

Ci sono due modi per affrontare la faccenda dell’attaccante uruguaiano Luis Suarez e del suo presunto esame farlocco di italiano all’Università per stranieri di Perugia al fine di ottenere la cittadinanza del nostro Paese,
in vista di un ingaggio alla Juve (poi sfumato). Il primo è buttarla sul ridere come hanno fatto i social (formidabile il cofanetto di dvd «Suarez legge Dante», parodia delle letture di Vittorio Sermonti). Il secondo
è considerarlo – se i fatti venissero comprovati – per quello che è: un atto grave. La cittadinanza infatti è un bene prezioso per qualsiasi Paese. È un insieme di diritti e di doveri che legano la persona alla comunità degli altri cittadini. Presume benefici importanti (la fruizione di servizi essenziali come l’assicurazione sanitaria, ad esempio, oppure l’istruzione per sé e per i propri figli, la difesa del proprio domicilio, del proprio ambiente e della propria persona attraverso le forze di polizia, il patrocinio gratuito in Tribunale, il voto attivo e passivo) e grandi responsabilità (le tasse, il contributo al benessere del Paese fino – all’estremo – alla partecipazione alla sua difesa in svariati modi, anche la chiamata alle armi nell’ipotesi più grave e nefasta).

Non viene infatti data «gratis et amore dei» ma per chi non è figlio di italiani (da noi vige ius sanguinis) comporta anni di sacrifici, magari facendo lavori umili e faticosi, prima di arrivare a questo ambito traguardo, la cui importanza è ben nota a chi non ce l’ha.

Un bene prezioso, dicevamo, fin da quando è stato istituito. Le città Stato dell’Antica Grecia lo dispensavano con il contagocce e chi veniva da fuori era ben accetto ma rimaneva un «meteco». Le «guerre sociali» sono nate per la richiesta della cittadinanza romana delle popolazioni italiche. Ecco perché la commedia all’italiana che traspare dalle intercettazioni effettuate dalla procura di Perugia di Raffaele Cantone nell’ambito di un’indagine che mirava ad altri accertamenti, ma in cui il caso Suarez è finito indirettamente, è piuttosto amara, oltre che grottesca. «Non spiccica una parola, ma deve passare», dice al telefono uno dei protagonisti di questa faccenda, uno dei professori incaricati di svolgere l’esame. Il poveretto (si fa per dire) «non coniuga i verbi e parla all’infinito», ma deve egualmente ottenere il livello intermedio B1. «Ma te pare che lo bocciamo», confida una voce rassicurante. «Non dovrebbe, deve, passerà, perché con 10 milioni a stagione di stipendio non gliela puoi far saltare perché non ha il B1», dice l’incaricata della preparazione del calciatore. Ed eccolo il punto. La cittadinanza italiana non è questione di diritto, ma di soldi, anzi di censo. Non è nemmeno detto che dietro ci siano mazzette (anche se è un’ipotesi di reato) forse perché non sono nemmeno necessarie. Ma il punto è che siccome uno guadagna dieci milioni a stagione mica può sottostare a un esame di Stato ed essere bocciato se non ha studiato e parla l’italiano come i pellirossa delle barzellette e dei film Western. I soldi insomma sono un «diritto aggiuntivo» che permettono di ottenere privilegi e spettanze che ai poveri non spettano. Ed è questo il lato odioso della faccenda, l’aspetto grottesco che ci trasforma in una Repubblica degli aiutini, dove tutto s’aggiusta se c’hai i soldi perché lavorare, sudare, studiare, sacrificarsi per anni non conta nulla, basta guadagnare dieci milioni a stagione e il resto sono solo fastidiose complicazioni e peggio per chi non ha il talento da attaccante di Suarez, è solo un povero Cristo e i soldi non ce li ha. Suarez, in ogni caso, della cittadinanza italiana non ha più bisogno, perché andrà all’Atletico Madrid. Ma resta quest’episodio da chiarire, nel contesto, alla Monicelli, di quest’Italia un po’ cialtrona, da eterni furbetti dell’esamino.

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