La posta in gioco
nel Referendum

Siamo tutti di fronte a un dilemma: il 20 e il 21 siamo chiamati ad esprimerci sulla legge di riforma costituzionale che opera un taglio, di circa un terzo, del numero dei parlamentari. Riforma della quale, come si sa, il M5S ha fatto una questione di bandiera, nel nome della lotta alla «casta». Il referendum confermativo - a differenza di quello abrogativo - non ha bisogno di alcun quorum per avere validità: in teoria basterebbe un solo voto (sì o no che fosse) per mettere il timbro definitivo sulla legge costituzionale approvata dalle Camere. La ragione di tale meccanismo, che può sembrare singolare, si fonda sul fatto che i cittadini sono chiamati a votare su un provvedimento che è stato approvato per ben due volte da ciascuna delle Camere. Quindi, agli elettori spetta una semplice ratifica senza il rischio che una scarsa affluenza alle urne continui a lasciare in sospeso la modifica costituzionale.

È palese che una partecipazione adeguata degli elettori darebbe «sostanza» alla legge di riforma, evitando che i rapporti – già abbondantemente critici – tra cittadini e istituzioni parlamentari si deteriorino ulteriormente. Ancor più che in altre occasioni, il numero degli elettori che andranno alle urne, per confermare o respingere la legge sulla diminuzione dei parlamentari, sarà un indizio serio e importante del livello di partecipazione. Un’affluenza scarsa sarebbe una conferma di disaffezione verso le istituzioni e, indirettamente, verso la democrazia parlamentare. Una robusta partecipazione al voto è, quindi, auspicabile.

Fino a poche settimane fa, la vittoria del «sì» sembrava del tutto scontata. Adesso non sembra che il risultato del referendum sia acquisito. A questo evidente spostamento – quale che sia l’esito referendario – hanno contribuito sia valutazioni di natura giuridica, sia fattori essenzialmente politici. Sul primo versante le prese di posizioni a favore del«no» nascono dalla considerazione che l’assetto (numero, funzioni, criteri organizzativi) delle Assemblee parlamentari non possa prescindere dai criteri della legge elettorale. Quindi, il taglio dei parlamentari, in presenza dell’attuale legge elettorale, non farebbe che alimentare squilibri nelle modalità di rappresentanza, creando differenze notevoli tra le diverse zone del Paese. Sul rapporto tra l’assetto delle Camere e legge elettorale vi è, in verità, un argomento poco discusso, ma forse non del tutto peregrino. L’ordinamento del Parlamento è fissato in Costituzione, la normativa elettorale al contrario è frutto di una legge ordinaria e può, quindi, essere modificata ogni volta dalla maggioranza di governo presente in un dato momento storico. Ed è, in realtà, ciò che è sempre successo in Italia, in particolare negli ultimi decenni, nei quali si sono susseguite riforme della legge elettorale. Sempre alla ricerca del sistema più giusto, sempre con una normativa poi giudicata iniqua e da cambiare.

I fautori del «sì» ripetono che la diminuzione del numero dei parlamentari è soltanto l’inizio di un processo di cambiamento che dovrà investire anche la legge elettorale e, per quanto riguarda il Parlamento, la modifica dei regolamenti interni che è di esclusiva pertinenza delle due Camere. Come si vede, gli uni pensano che la riduzione del numero dei parlamentari debba esse l’inizio di un percorso, i sostenitori del «no» ritengono che la modifica costituzionale debba essere l’elemento finale di un processo di cambiamento che deve partire da nuove regole di partecipazione al voto e dalle modalità di rappresentanza. A rendere più arduo il dilemma della scelta concorre la singolare mescolanza del fronte del «sì» e del «no» tra le forze politiche. Raramente si è visto un solidificarsi di posizioni che intersecano i partiti. Ad eccezione del M5S, monoliticamente attestato sul «sì», gli altri partiti – al di là di proclami di principio - non hanno posizioni univoche. Una massiccia partecipazione al voto servirebbe a capire i reali orientamenti dell’opinione pubblica.

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