La Rete fa vincere
ma non aiuta a governare

La stupefacente affermazione del Movimento 5 Stelle nelle elezioni del 4 marzo dello scorso anno fu soprattutto determinata dall’indubbia intuizione strategico-mediatica di utilizzare la Rete quale strumento di «democrazia diretta». Attraverso un uso «chirurgico» dell’eterogeneità dei social, che ha reso possibile la raccolta di una miriade di consensi soprattutto tra i più giovani, sono stati veicolati i principali obiettivi politici del Movimento quali, su tutti, la riduzione della povertà e la lotta alla corruzione politica e istituzionale.

È ancora vivo il ricordo dei cori «onestà-onesta» intonati in occasione della morte di Roberto Casaleggio, cofondatore con Beppe Grillo del Movimento. Poiché, come noto, quei risultati elettorali non fecero emergere una maggioranza omogenea, il Presidente Mattarella si vide costretto a promuovere un accordo d’intenti tra i due soggetti politici M5S e Lega, uniti solo da alcune istanze populiste e da una certa avversione all’Europa. Si rese così necessario sottoscrivere un «contratto di governo» nel quale entrambi gli schieramenti inclusero i propri obiettivi elettorali.

Passato un anno, i Pentastellati si sono presentati alle elezioni europee del 26 maggio scorso con un risultato tutto sommato accettabile dagli iscritti, avendo portato a compimento il reddito di cittadinanza, in parte ridimensionato dalla sua frettolosa realizzazione, nonchè la lotta alla corruzione con l’approvazione di un apposito decreto. Nonostante ciò, il M5S ha dovuto registrare un calo di circa il 50% dei voti, a fronte di un aumento di circa il 50% dei consensi della Lega, per la quale hanno votato anche molti Pentastellati. Alla Lega hanno certamente giovato i provvedimenti sulla sicurezza e sul contenimento dei flussi migratori voluti da Matteo Salvini, che ha sfruttato abilmente una diffusa percezione di paura dell’opinione pubblica, spesso male informata e da sempre nel nostro Paese devota a chi si erge a risolutore unico dei problemi. Al Capo della Lega ha giovato anche il fatto di essere riuscito ad apparire ogni giorno come oppositore interno al proprio governo nel quale l’alleato Di Maio e i suoi ministri si dimostravano incapaci di assumere importanti decisioni, come quella della Tav, per la necessità di fare i conti con il consenso della Rete. In buona sostanza la Rete ha offerto grandi vantaggi al M5S per la raccolta dei voti nella campagna elettorale del 4 marzo dello scorso anno, ma è altresì stata una delle cause principali del tracollo del 26 maggio scorso, avendo impedito di affrontare e risolvere molti problemi. Tutto ciò doveva essere messo in conto, perché la Rete si propone come un’assemblea globale perennemente riunita, in cui si discute e ci si accapiglia, ma nella quale si arriva con grandi difficoltà a quella indispensabile virtù politica di fare sintesi per poter agire concretamente e risolvere i problemi.

L’idea originaria del Movimento era fondata sul convincimento che attraverso l’utilizzo della Rete potesse essere ricondotto il potere naturalmente al popolo, attuando quella «democrazia diretta» spesso naufragata in passato. L’esperienza di governo ha reso vana tale aspettativa, in quanto la Rete ha finito col rappresentare un popolo senza volto, spesso sostituito da minoranze di militanti attivi facilmente influenzabili. Da questa situazione il M5S dovrà quanto prima uscire, pena la sua «implosione», utilizzando sì la Rete quale strumento di diffusione delle proprie istanze politiche, ma guardandosi bene dal farla divenire una vera e propria «assemblea deliberativa».

Dovrà, in altri termini, assumersi anch’esso tutte le responsabilità della «democrazia rappresentativa», ricercando una nuova forma organizzativa più vicina a quella del partito e perseguendo, nell’immediato, due altri importanti obiettivi: porre a capo del Movimento un «leader eletto», quindi contendibile, e non un «capo assoluto» di fatto nominato dall’alto; fare in modo che tutti gli eletti in Parlamento e nelle amministrazioni locali siano portati a comportarsi non semplicemente da cittadini «eterodiretti», bensì da «rappresentanti dei cittadini», consapevoli delle responsabilità che derivano dal proprio ruolo e dal mandato ricevuto.

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