La stretta Fed e la via europea

La Federal Reserve americana accelera sulla strada imboccata lo scorso marzo, quella di una decisa stretta alla politica monetaria per domare l’inflazione da record, un obiettivo da raggiungere anche a costo di produrre un rallentamento della crescita.

È legittimo chiedersi se la Banca centrale europea (Bce), che ieri ha annunciato un progetto di «scudo anti spread», nelle prossime settimane dovrà seguire pedissequamente la strategia dei colleghi di Washington, mettendo a repentaglio una ripresa che dalla nostra sponda dell’Atlantico è già molto più debole. Altrettanto lecito ritenere che l’Europa debba percorrere un sentiero almeno in parte diverso. Vediamo perché. L’aumento dei prezzi che si registra da mesi nelle principali economie avanzate ha senz’altro fattori genetici comuni.

La pandemia ha costretto molte aziende a interrompere o ridurre notevolmente la produzione di beni e servizi, soprattutto a causa delle limitazioni imposte per motivi sanitari. «Con il graduale rientro dell’emergenza, l’offerta globale non è stata in grado di adeguarsi alla celere ripresa della domanda aggregata - si legge nella Relazione annuale della Banca d’Italia - (…). Ne sono derivate rilevanti difficoltà nelle catene di approvvigionamento, che hanno inciso sui costi di trasporto e su quelli di produzione». In altre parole, in tutto il mondo la «domanda» di computer, oggetti tecnologici, automobili nuove, eccetera, è cresciuta rapidamente non appena sono state allentate le restrizioni anti-contagio, anche grazie al sostegno degli aiuti di politica monetaria e fiscale concessi durante i mesi più bui della pandemia, al punto che l’«offerta» degli stessi prodotti da parte delle aziende in giro per il mondo non è riuscita a stare al passo. A ciò si aggiunga una dinamica simile sul fronte dell’energia (leggi: petrolio) e di alcune componenti critiche (leggi: semiconduttori) che ha anch’essa alimentato un rialzo diffuso dei prezzi.

Fin qui le analogie di fondo tra Stati Uniti ed Europa. Tuttavia non mancano differenze di un certo rilievo, a giudicare da alcuni dati. Negli Stati Uniti, i prezzi a maggio sono aumentati dell’8,6%, non succedeva da 41 anni, mentre l’occupazione ha recuperato quasi tutto il terreno perso durante la pandemia, con un tasso di disoccupazione contenuto, pari al 3,6%. Nell’Eurozona l’inflazione ha toccato sì vette inusitate, raggiungendo a maggio l’8,1% (mezzo punto in meno che negli Stati Uniti), ma il tasso di disoccupazione è al 6,8% (quasi il doppio di quello americano). Non solo. Nel Vecchio continente, secondo tutte le analisi, è molto più marcato il contributo della componente energetica all’inflazione. La nostra prossimità alla guerra scatenata dalla Russia in Ucraina, infatti, fa sì che avvertiamo con più forza il rialzo dei prezzi dei comparti energetico e alimentare. Ecco perché si dice che il caro prezzi americano è «da domanda», in quanto generato da un surriscaldamento di un’economia vicina alla piena occupazione, mentre il nostro caro prezzi è «da offerta», causato cioè in misura maggiore da shock sul fronte delle forniture di materie prime e beni.

Se quanto detto finora è vero, alla Bce nelle prossime settimane basterà emulare la Fed nel percorso di normalizzazione della propria politica monetaria? Il nostro ministro dell’Economia Daniele Franco ha osservato che un lento ritorno alla normalità monetaria nel nostro continente era «prevedibile», poi però ha aggiunto: «Nello stabilire l’innalzamento dei tassi, bisogna considerare i fattori che sono alla base dell’inflazione, se questa è legata dalla parte della domanda o dalla parte dell’offerta. Se è dalla parte della domanda, l’aumento dei tassi è appropriato per contenere l’inflazione, se l’inflazione dipende ampiamente da shock dell’offerta - ha concluso Franco - l’aumento dei tassi è meno pertinente». L’economista Francesco Giavazzi, consigliere economico di Palazzo Chigi, è stato ancora più tranchant: «La Bce promette di alzare i tassi per rispondere all’aumento dell’inflazione con uno strumento sbagliato. Noi non abbiamo un’inflazione da domanda ma un’inflazione legata al prezzo del gas». Lo scudo anti-spread annunciato ieri dalla Bce è una prima correzione di rotta rispetto a certi toni troppo perentori utilizzati giovedì scorso. Se basterà, lo scopriremo presto.

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