La tregua armata
tra governo e regioni

Le Regioni vogliono che si dia agli italiani una prospettiva di riaperture delle attività, e il Governo non glielo nega. Solo, richiama tutti ad una ovvietà: le riaperture sono determinate dai numeri della pandemia, sono quelli che impongono cosa bisogna fare. Su questo compromesso, più lessicale che altro, si conclude un incontro Governo-Regioni che era stato previsto come burrascoso e che invece ha lasciato le tensioni sotto il tavolo evitando che deflagrassero. La prima tensione era quella dovuta alle parole di Draghi quando in Parlamento ha accusato le Regioni di aver dato ceduto, nella campagna vaccinale, alle pressioni di qualche potente corporazione a danno degli anziani e dei più fragili. Il secondo motivo di tensione era dovuto alla fuga di avanti di qualche governatore (Zaia in Veneto o De Luca in Campania) che hanno preannunciato contratti in corso per acquistare dosi di Sputnik.

Già il presidente della Conferenza delle Regioni Bonaccini aveva sbarrato la strada ad iniziative estemporanee ma soprattutto Draghi aveva invitato tutti a non peccare di superficialità «quando si tratta di cose che riguardano la vita o la morte delle persone».

Di tutto questo nella riunione di ieri non è rimasta traccia ufficiale. Tanto che la ministra delle Regioni Maria Stella Gelmini (Forza Italia) ha potuto sostenere di aver verificato una grande sintonia e una forte unità di intenti. La verità è che i governatori sentono più di altri le pressioni dell’elettorato, delle categorie in difficoltà, della gente che non ce la fa più né a stare dentro casa né a resistere alla mancanza di lavoro: a questa massa di cittadini gli enti locali devono dare una risposta che non può limitarsi ai sostegni, che per loro natura rappresentano una parziale riparazione delle perdite di fatturato subite da ristoratori, commercianti, albergatori, ecc. a forza di chiusure forzate. Dunque le Regioni vogliono che quantomeno si fornisca al Paese un orizzonte temporale da guardare. È la stessa operazione che fa Salvini: invoca le riaperture o chiede che almeno entro la metà di aprile si verifichino i numeri della pandemia. Che è esattamente quello che rispondono Draghi, il ministro Speranza e le varie autorità sanitarie: se i contagi diminuiscono, se le terapia intensive – oggi pericolosamente vicine al punto di saturazione – si liberano un po’, se gli effetti delle restrizioni si cominciano a vedere e se nel frattempo la campagna vaccinale si potrà giovare degli arrivi delle dosi fin qui centellinate dalle multinazionali, allora sì, certo che si potrà pensare a riaprire, a – come chiede il ligure Toti – programmare le vacanze, i viaggi o i matrimoni.

Su questa base tra Governo e Regioni può tornare un poco di sereno. Anche in termini politici dal momento che l’offensiva «aperturista» viene portata avanti soprattutto dai governatori leghisti, al seguito della linea del loro leader che si è intestato questa battaglia anche per non lasciarla completamente nelle mani di Fratelli d’Italia: lo scontento della popolazione potrebbe gonfiare i consensi dell’alleato-competitore, essendo l’unico partito rimasto all’opposizione. Salvini prova a ritagliarsi un ruolo sul difficile crinale del «partito di lotta e di governo», come si diceva un tempo.

Ma è proprio lì che Enrico Letta cerca di infilzarlo chiedendogli di dimostrare il neo-europeismo della Lega, l’abbandono della polemica con l’Unione e addirittura di meritarsi l’iscrizione al Partito popolare europeo. Tutti terreni assai scomodi per Salvini: basta poco infatti per regalare voti a Giorgia Meloni.

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