L’abuso d’ufficio
inibisce i sindaci

Ha fatto discutere la «carezza» di Matteo Salvini al rivale politico Giuseppe Sala. A pochi minuti dalla lettura del dispositivo di condanna letto dai giudici di Milano a carico del sindaco della città ambrosiana, il ministro dell’Interno ha detto da Treviso: «Non sono abituato a festeggiare le condanne altrui. Voglio leggermi gli atti. Da milanese sono orgoglioso di come è stato gestito Expo. Se c’è stato un errore verificheremo di che tipo di errore si tratta, però mentre a sinistra di solito festeggiano le sentenze contro Tizio e contro Caio, io da milanese non festeggio. Parole caute, cui non eravamo abituati tra rivali politici negli ultimi tempi. Uno dei motivi di queste affettuosità, a parte la milanesità, è senz’altro la natura del reato, quel falso ideologico che insieme all’abuso di ufficio rappresenta lo spauracchio di tutti i sindaci e amministratori d’Italia.

In particolare, l’abuso d’ufficio scatta molto facilmente, perché esposto alle denunce di chiunque (talvolta perfino generata dal livore o dalla rappresaglia dello scontento di turno) per qualunque trasgressione formale: i motivi possono andare da una multa cancellata a un presunto favore quando si assume una persona, fino a una gara sospetta di essere «pilotata».

Tra l’altro, dopo l’inevitabile processo penale (che spesso arriva anni dopo molto, molto tempo con un’assoluzione, molto frequente) in caso di condanna (da uno a quattro anni) arriva la sospensione dell’amministratore coinvolto, anche in attesa di sentenza definitiva per effetto della legge Severino.

Insomma, ce n’é abbastanza per turbare i sonni del sindaco (e non solo lui, perché ovviamente potrebbe essere indagato anche un semplice funzionario nell’esercizio delle sue funzioni). Oltretutto quello di abuso d’ufficio (ma anche il falso ideologico, di cui si è macchiato Sala, condannato a sei mesi convertiti in un multa di 45 mila euro) è un reato assai difficile e complicato, poiché è sempre difficile stabilire il confine tra la discrezionalità, propria di un politico, e l’obbligo di rispettare procedure e cavilli.

Infatti il falso ideologico e soprattutto l’abuso d’ufficio non risparmiano nessun colore politico tra gli 8 mila sindaci italiani e gli altri amministratori pubblici, dai governatori agli assessori. Per fare un elenco dei nomi colpiti recentemente non basterebbe quest’articolo. I nomi più eclatanti sono stati quello del governatore leghista Attilio Fontana, della collega umbra Catiuscia Marini, del Pd, del governatore campano De Luca, sempre del Pd. Nemmeno i Cinquestelle sono stati risparmiati e il caso più illustre riguarda la sindaca di Roma Virginia Raggi.

Lo stesso commissario dell’Anticorruzione Raffaele Cantone ha detto che il reato di abuso d’ufficio andrebbe riformato (anche se non certo cancellato, ovviamente), poiché c’è una quantità enorme di provvedimenti che non arrivano a condanna o sentenza e dunque è evidente qualcosa nella norma che non funziona. Persino il premier Conte da giurista si è espresso in maniera critica nei confronti di questo reato affermando che andrebbe rimodulato per distinguere il malaffare dall’atto in buona fede delle persone per bene.

Ma la riforma del «323» è uno dei tanti dissidi tra Di Maio e Salvini. Il primo non ne vuole nemmeno sentir parlare per la nota propensione grillina a sentirsi paladini dell’anticorruzione senza se e senza ma (anche se poi capita che anche qualcuno di loro ci finisca dentro). Ma su questo i leghisti non si fermano. Come andrà a finire? Lo scopriremo solo vivendo. Per il momento i sindaci continueranno a pensarci due volte prima di metterci la firma.

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