Il ponte di Genova
Un esempio per ripartire

Per ricostruire un Paese ci vogliono grandi opere come il nuovo ponte di Genova. Ieri è transitata la prima auto, a meno di due anni dalla tragedia agostana che provocò 43 vittime, un record cui il mondo assiste con ammirazione, dopo averci guardato per mesi attraverso l’ecatombe del Covid. È tempo di ripartire, di reinventare un Paese, come ha detto ieri Giuseppe Conte a conclusione degli Stati Generali di Villa Pamphili. È tempo di stupire con un nuovo rinascimento o un nuovo boom economico, come hanno sempre fatto gli italiani nei momenti storicamente più

difficili. La resilienza fa parte del nostro codice genetico, insieme al gusto per l’arte e per la bellezza. Ogni ricostruzione che si rispetti è sempre passata da un piano di grandi opere, proprio come il nuovo viadotto della città della Lanterna progettato da Renzo Piano. Opere di cui l’Italia è letteralmente affamata: strade, autostrade, linee ferroviarie, porti, aeroporti, logistica integrata, ma anche scuole, ospedali, aree verdi e piste ciclabili, per non parlare delle infrastrutture digitali, anch’ esse necessarie alla ricostruzione di un Paese, a partire dalla banda larga (attualmente non arriva a un quarto delle famiglie). Il premier le ha annunciate, ma ai proclami seguiranno i fatti? Finora il nostro Paese ha solo disinvestito sui cantieri. I finanziamenti di opere pubbliche sono diminuiti progressivamente negli ultimi anni, attualmente sono il 2,7 per cento del Pil, andrebbero quanto meno raddoppiati, mentre finora abbiamo solo disinvestito.

Anche gli enti locali hanno rallentato, per via della micragna dei loro bilanci. I Comuni, a causa dei mancati trasferimenti dello Stato, hanno aumentato l’imposizione fiscale del 108 per cento e ridotto di 2,5 miliardi la spesa per investimenti. Questo deficit infrastrutturale ci costa 70 miliardi di euro all’anno solo per le esportazioni. Di opere necessarie all’ammodernamento del Paese, in una cornice di compatibilità ambientale, non ne parla solo Conte, ma anche il governatore della Banca d’Italia Visco e la task force del manager Colao nell’ormai celebre piano di rinascita (sperando che non sia già lettera morta). Possiamo fare di necessità virtù, dove la necessità è la tragedia umana che ci stiamo lasciando alle spalle - con conseguenze economiche spaventose - e la virtù è la ricostruzione del Paese finanziata dai fondi dell’Unione europea, che sono tanti.

L’Osservatorio economico dell’Università Cattolica di Carlo Cottarelli ha calcolato che ci vorrebbero circa 170 miliardi di euro, che sono bene o male quelli che ci spettano dal Recovery Plan dell’Unione europea. Una volta tanto, sempre che Conte si presenti a ottobre con un piano dettagliato e circostanziato (cosa non scontata, poi spiegheremo perché) i soldi ci sono. Dei 560 miliardi di euro del Recovery and Resilience Facility Plan ce ne spettano ben 172,7 di cui 81,8 a fondo perduto (udite udite) e 90,9 in prestiti agevolati. Un vero e proprio tesoretto. Secondo il piano Colao, che ci serve come paradigma, circa un terzo andrebbe a sostenere le famiglie, un terzo al turismo e un terzo alle infrastrutture. Per le opere pubbliche servono bene o male 44 miliardi, come abbiamo detto messi sul tavolo dall’Unione europea (attraverso l’emissione di bond super garantiti con la tripla A), da impiegare con accordi di partnership pubblico-privato. Quanto alla lista delle opere, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Tutto così semplice? Dal punto di vista economico sì. Da quello politico per nulla.

Le liti e i veti tra partiti rischiano di far collassare la maggioranza, un’orgia di veti incrociati su quale opera e quale no, un assalto alla diligenza campanilista che va dal Trentino a Marsala. Per non parlare della ben nota ritrosia (o dovremmo parlare di fobia?) dei Cinque Stelle per le opere pubbliche, alta velocità e gasdotto Tap due esempi per tutti. Eppure qualunque opera di ricostruzione e ammodernamento del Paese passa per i cantieri: lo dice la storia del mondo. Non è un caso che in questi giorni, come è accaduto tante volte, si torni a parlare dello Stretto di Messina. Un Grande Paese ha bisogno di una grande opera come simbolo della sua rinascita che faccia da volano, come lo sono stati il Partenone di Pericle, la Tour Eiffel o i grattacieli di New York del New Deal (costruiti dagli emigrati italiani). I cantieri rimettono in moto l’economia e producono lavoro, affiancati da una riforma fiscale e da un solido Welfare. Nel 2020 non è stato ancora inventato un modo migliore per ripartire e tornare a produrre benessere e ricchezza.

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