Le macerie
del sisma
e i cavilli

«Tutto l’Appennino non ha smosso quanto da solo ha mobilitato il ponte di Genova». Il vescovo di Rieti, monsignor Domenico Pompili, ha commentato così il paradosso italiano della ricostruzione. Perché il viadotto sul Polcevera è stato fatto in meno di due anni e la ricostruzione dopo il terremoto del 24 agosto del 2016 che sconvolse 138 Comuni del Centro Italia causando 299 morti e 40 mila sfollati è ancora un miraggio? Perché la città della Lanterna è diventata il simbolo della resilienza e degli effetti di quel sisma ancora presenti non parla più nessuno, a parte gli abitanti delle zone interessate dal sisma? Perché? La risposta è molto semplice e riguarda i contesti sociali e politici di questi due eventi.

A Genova si è deciso di fare in fretta slegando i lacci e lacciuoli dei cantieri. In Abruzzo, Lazio, Umbria e Marche la burocrazia è come una gramigna che blocca tutto, o quasi. Recentemente il commissario alla Ricostruzione Giovanni Legnini – che sogna 5 mila cantieri entro l’inverno – ha emanato tre nuove ordinanze per semplificare le procedure e accelerare 8 mila e passa pratiche pendenti. Ci sono anche un «ecobonus» e un «sismabonus» per incentivare i lavori. Ma intanto si sono persi quattro anni e tanta gente abita ancora dentro i prefabbricati.

Il rapporto sullo stato di avanzamento presentato da Legnini è molto triste: parla di 5.325 progetti approvati, di cui 2.544 già realizzati e 2.758 cantieri in corso per la ricostruzione privata; le opere pubbliche finanziate sono 1.405, delle quali concluse solo 86 ed i cantieri aperti attualmente sono 85. Ma i lavori, che già procedevano molto lentamente, sono stati anche pesantemente condizionati dal blocco delle attività e dalle restrizioni dell’emergenza sanitaria per la pandemia del Covid-19, a cominciare dal lockdown dei mesi passati (mentre a Genova non ci si è mai fermati).

Pure ad Amatrice, città simbolo del sisma, metà dei cantieri è ancora in corso, bloccati da cavilli, come la mancanza di un documento o di una certificazione. Ora si spera che la ricostruzione vada avanti più celermente. Ieri il premier Conte ha annunciato che potranno essere utilizzati anche una parte dei fondi previsti dal Recovery fund. Anche se il problema non è costituito dalla mancanza di risorse bensì dalle lentezze bizantine, dalle scartoffie che bloccano le betoniere.

Anche Papa Francesco domenica scorsa, all’Angelus, ha auspicato un’accelerazione, «affinché la gente possa tornare a vivere serenamente in questi bellissimi territori dell’Appennino». Ma ogni ricostruzione non dovrà essere fine a sé stessa. Proprio tornando alle parole dell’omelia per le vittime del sisma di monsignor Pompili, «anche il post-terremoto può segnare uno spartiacque per il nostro Paese. Un passaggio, appunto, tra una vecchia idea di ricostruzione e una nuova idea di rigenerazione».

Perché la vera rigenerazione è quella di una comunità, di un rapporto nuovo con l’ambiente: «La ricostruzione non basta se non si cura la qualità dei legami interpersonali, piuttosto che inseguire ciascuno gli interessi propri. Di sicuro, per tutto il Centro Italia l’investimento edilizio potrebbe rivelarsi una leva potente, ma a essere privilegiata dovrà essere la relazione e non la speculazione, la fiducia e non il sospetto, se si vuole davvero rinascere». Occorre una «necessaria contemplazione» e cioè uno sguardo differente che modifica il nostro modo di vivere, trasformandolo dall’interno. E questa è una lezione, un monito, un imperativo, che non riguarda solo le zone interessate dal terremoto, ma tutti noi.

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