Le norme tortuose
con logiche del 1800

Ottantasei autorizzazioni per aprire una carrozzeria, 72 per un bar, 65 per un negozio di parrucchiere: questo il quadro di un percorso ad ostacoli peggiore di una gara di cross. Una serie di meandri che fa assimilare l’amministrazione pubblica ad un «bosco immenso e pauroso». L’impressione è che - per molti aspetti - il sistema pubblico continui ad operare con logiche dell’Ottocento. E non riesca a venir fuori dalla pedanteria dei personaggi in mezzemaniche abbarbicati al totem dei regolamenti: logica «interna» che fu bollata da Gaetano Salvemini come elefantiasi burocratica. Limitarsi a considerare il fenomeno come prodotto della mentalità burocratica o soffermarsi soltanto alla descrizione degli innumerevoli casi di lentezza e tortuosità della macchina amministrativa serve però a poco.

Occorre, in primo luogo, distinguere due piani: quello delle norme di legge (o di decreti aventi forza di legge), quello delle procedure interne, affidate a regolamenti e/o alla prassi dei singoli uffici. E qui si aprono due orizzonti diversi. Spesso le norme di legge sono troppo minuziose, altre volte inattuabili.

La prima circostanza è frutto della reciproca diffidenza tra politica e amministrazione. Chi fa le leggi ritiene necessario specificare in modo estremamente particolareggiato cosa ogni apparato pubblico debba fare e come debba farlo. Modalità talvolta suggerite dagli stessi vertici burocratici per evitare responsabilità («faccio così perché lo dice la legge»). La torrenziale produzione normativa dei mesi scorsi in tema di gestione della pandemia - al netto della obiettive difficoltà della vicenda - ne sono una riprova lampante.

Gli effetti sono noti a tutti. La tortuosità normativa da un lato amplifica l’insoddisfazione dei destinatari dei provvedimenti governativi, dall’altro mette in ginocchio apparati burocratici già spesso in sofferenza. I cittadini se la prendono, comprensibilmente, con la burocrazia senza rendersi conto che il difetto è a monte, nelle leggi.

Non meno nefaste sono le norme approvate da chi non ha un’adeguata conoscenza delle organizzazione pubbliche e ritiene che, fatta una legge, il percorso sia compiuto. Basta pensare agli annunci dal balcone («abbiamo abolito la povertà») per cogliere quanta strada vi sia ancora da percorrere per rendere più efficiente il sistema pubblico, più efficaci i provvedimenti adottati, meno costosa per i cittadini e l’amministrazione l’erogazione di un servizio pubblico.

Queste, in estrema sintesi, le anomalie alimentate da un rapporto non ottimale, perlopiù sghembo, tra decisori politici e vertici burocratici. Poi vi sono i guasti ereditati da un sistema amministrativo abituato ad operare per «atti» e non per «fatti», per procedure e non per risultati. Il tema è stato talmente dibattuto che non occorre insistervi. Tre episodi - due lontani nel tempo, l’altro odierno - possono far riflettere sulla mentalità burocratica. Che esiste dentro e fuori le mura degli uffici pubblici. Nel 1870 il ministro dell’Interno, Giovani Lanza, incaricò un suo funzionario di studiare metodi di semplificazione del lavoro. L’impiegato cronometrò in minuti i tempi per l’esecuzione di alcune «pratiche» e formulò proposte di riduzione del persone e della spesa. Negli stessi anni un capo-divisione richiamò all’ordine un impiegato - che inviava alle prefetture una circolare ministeriale con un solo numero di protocollo, mentre tutti gli altri adoperavano 69 protocolli (tante erano allora le prefetture) - accusandolo di sminuire il lavoro d’ufficio agli occhi del direttore generale. Il vecchio e il nuovo che hanno sempre convissuto nelle pubbliche amministrazioni.

L’oggi. Mia moglie ha venduto un’auto, comprandone una nuova. Si è recata al punto Blu di Telepass, ha fatto inserire la nuova targa e ha chiesto la modifica della domiciliazione bancaria. Apriti cielo! Non ho potuto farla on line, devo andare a mia volta al punto Blu, lontano 20 km da casa mia a Roma, e fare un nuovo contratto. Non servono commenti.

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