L’Europa non è più inerme in economia

I falchi contrapposti alle colombe. I «Paesi frugali» sul fronte avverso a quello dei «Paesi del Mediterraneo». Lo «spread» e il «Patto di stabilità». Leggendo certe cronache dei vertici europei che costellano questa fase difficile per la nostra economia potremmo essere colti da una sensazione di «déjà vu»: l’Europa si prepara forse ad affrontare l’attuale momento storico con le stesse modalità (non propriamente brillanti) e con gli stessi strumenti di politica economica visti all’opera dieci anni fa durante la crisi del debito sovrano? Per rispondere, occorre partire da una premessa.

Il nostro continente ha di fronte a sé alcune sfide con pochi precedenti: la guerra alle porte, i costi dell’energia in fortissimo rialzo, l’inflazione che ormai prende piede nell’economia reale, l’incertezza che investe noi tutti. È dunque realistico che la ripresa post-Covid continuerà a rallentare e che addirittura possa interrompersi nel caso di un aggravamento del contesto bellico o energetico. In uno scenario simile, è ovvio che si registreranno divisioni tra le cancellerie sulla scelta delle strategie future, così come differenze di tono tra i governi su alcuni argomenti.

Detto ciò, è indubbio che quando gli investitori domestici o internazionali volgono il loro sguardo verso l’Europa, oggi vedono un’Europa – e in particolare un’Eurozona – diversa da quella che fu travolta dallo shock del debito sovrano. L’architettura economica della nostra area è decisamente più solida di allora. Per capire perché, si prendano in esame le due principali leve di politica economica, quella monetaria e quella fiscale. I progressi su entrambi i fronti sono stati significativi e duraturi.

Dieci anni fa, in un’estate come questa, l’allora presidente della Banca centrale europea (Bce) Mario Draghi pronunciava tre parole – «whatever it takes» – che inauguravano la politica monetaria non convenzionale nel nostro continente e che agli occhi del mondo contenevano un messaggio in grado di spazzare via ogni dubbio (e ogni picco dello spread tra Btp e Bund): la Banca centrale con sede a Francoforte da quel momento avrebbe fatto «tutto il necessario» per tenere assieme la moneta unica. Un precedente che pesa ancora oggi, tanto che all’attuale presidente della Bce, Christine Lagarde, è bastato evocare il progetto di uno «scudo» finanziario per rimediare a certe sbavature comunicative e tornare così a domare lo spread.

Durante la pandemia anche la politica fiscale europea si è caratterizzata per alcuni precedenti che assomigliano a degli «spartiacque». Si pensi in particolare alla scelta della Commissione di collocare direttamente sul mercato titoli di debito per raccogliere le risorse finanziarie da distribuire poi agli Stati membri. Si è parlato, in quella occasione, di un «embrione» di Eurobond per finanziare il programma Next Generation Eu; una scelta inaudita fino a qualche anno fa, compiuta però sulla scorta di un’emergenza che rischiava di ampliare i divari economici e sociali tra Paesi membri fino a una possibile rottura. Un po’ come accadde con il «whatever it takes» in politica monetaria, Next Generation Eu (dal quale provengono i circa 200 miliardi di euro per finanziare il nostro Piano nazionale di ripresa e resilienza, Pnrr) è un fatto che si è verificato una volta e che soltanto per questo motivo può costituire una norma, un modello, in situazioni analoghe del futuro. Sulla sua falsariga si muove per esempio il piano RepowerEu della Commissione europea per rendere l’Europa indipendente dai combustibili fossili russi prima del 2030. Non solo: la Commissione ha introdotto il principio degli acquisti in comune – a nome degli Stati membri - di gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti, e tale meccanismo potrebbe essere replicato su tutti gli acquisti di gas o sugli stoccaggi, come pure sul tetto comune al prezzo del gas auspicato dall’Italia, per far pesare di più il nostro potere di mercato agli occhi degli esportatori di metano.

In conclusione, sebbene sarebbe errato negare i tanti limiti europei su crescita e innovazione, così come sbaglieremmo a minimizzare i rischi futuri, tuttavia è un dato di fatto che l’Europa ha ormai sviluppato una capacità (istituzionale) di mostrarsi unita attraverso le grandi crisi economiche. Una capacità che dieci anni fa non avevamo e di cui oggi gli investitori dovrebbero tener conto.

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