L’indifferenza
sulla denatalità

«Questo è un problema che riguarda l’esistenza del nostro Paese». Con la pacatezza che sempre lo contraddistingue Sergio Mattarella ieri non ha potuto fare a meno di usare espressioni allarmanti davanti ai nuovi dati sulla natalità resi noti dall’Istat. L’occasione dell’uscita del presidente è stato l’incontro con il Forum delle Associazioni famigliari, cioè la sola realtà che in Italia si sia davvero battuta per arginare il crollo demografico. Mattarella ha anche indicato la ragione principale che sta alla radice di questa drammatica denatalità. «Il dato Istat», ha detto, «indica che il numero delle famiglie in Italia è diminuito considerevolmente. Come conseguenza dell’abbassamento della natalità vi è un abbassamento del numero delle famiglie».

Infatti i dati rivelano che il tasso di fecondità per donna è rimasto invariato, seppur bassissimo: 1,29. Ma il fatto nuovo è il calo del numero di donne in età feconda. Insomma siamo entrati in una fase in cui il problema si moltiplica al quadrato: non solo si fanno pochi figli, ma si assottiglia la popolazione in età per fare figli. E questo nonostante il fatto che in Italia sempre più donne partoriscano oltre i 40 anni, quindi sfruttando quell’ultimo segmento di vita possibile per generare una nuova creatura (le donne che fanno figli dopo i 40 sono ormai numericamente pari a quelle della fascia 20-24 anni).

Nel rapporto Istat c’è un numero che più di ogni altro parla per la sua crudezza: per ogni 100 residenti che lasciano per morte, oggi ci sono appena 67 neonati, mentre solo dieci anni fa risultava pari a 96. Solo i flussi migratori garantiscono che il calo della popolazione non assuma dimensioni ancora più inquietanti tenendoci appena sopra l’asticella dei 60 milioni di abitanti. Sottolinea l’Istat che si tratta del «più basso livello di ricambio naturale mai espresso dal Paese dal 1918». Un paragone impressionante, se si pensa che il 1918 è l’anno conclusivo della Prima guerra mondiale: il che significa che quello che il nostro Paese sta sperimentando è qualcosa di paragonabile soltanto alle conseguenze causate da un tragico conflitto che aveva lasciato milioni di morti sul terreno. È un paragone che dovrebbe davvero inquietare, eppure non esiste nessuna percezione della drammaticità documentata da questi numeri e da ciò che in proiezione comporteranno nel prossimo futuro. È un tema che non entra mai nell’agenda della politica (i neonati non votano…), che non accende l’indignazione o quanto meno la preoccupazione di nessun intellettuale, che non vede mobilitata nessuna rappresentanza sociale, tolte le Associazioni famigliari, vere cenerentole nel nostro panorama pubblico. Oggi semmai è più facile che nel dibattito si senta la voce di chi sostiene tesi eccentriche ma molto di moda e amplificate in modo sospetto da tanti media, secondo le quali uno dei problemi del pianeta oggi sarebbe non solo l’eccesso di popolazione ma anche l’egemonia antropica che romperebbe gli equilibri naturali. È un antispecismo che è l’ultimo di tante posizioni culturali o pseudoculturali che in questi decenni si sono alternate causando tutte lo stesso risultato: stigmatizzare e marginalizzare socialmente il desiderio più umano che ci sia, quello di costruire un’alleanza (che si chiama famiglia) per generare nuove vite e con queste investire sul futuro. Certamente i dati Istat ci dicono che ci sono anche ragioni più semplici e concrete che spiegano quello che si sta sperimentando nel nostro Paese: lo spaccato regionale infatti evidenzia che la natalità tiene in quelle zone d’Italia dove l’economia tiene e dove nel tessuto sociale c’è spazio per la fiducia e per la progettazione del futuro. Anche i dati della Lombardia sono da questo punto positivamente indicativi. Tuttavia queste evidenze elementari che suggeriscono quale sia la strada per uscire dal tunnel del deserto demografico, devono scontrarsi con un pensiero negativo e ultimamente disumano che trova sempre nuove forme per farsi largo, con la connivenza irresponsabile di tanti personaggi pubblici.

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