L’industria delle armi
più forte del Covid

Non hanno bisogno di far ripartire la produzione. Non conoscono crisi, né la conosceranno in futuro. L’industria degli armamenti veleggia con tranquillità nella tempesta perfetta di Covid-19. Quando nei primi tempi di lockdown si compilavano compulsivamente le classifiche si poteva chiudere o restare aperto nemmeno per un attimo ci ha sfiorato l’idea di non ritenere «prioritaria» la produzione di armi. Ai grandi gruppi dell’apparato militare-industriale il coronavirus non ha fatto alcun danno, anzi le tensioni internazionali e la
continua nuova guerra fredda planetaria Usa contro la Cina, le tensioni provocate dall’aumento delle diseguaglianze, i ripiegamenti nazionali e l’ennesima crisi del multilateralismo, che cambierà la sintassi della competizione geopolitica globale, renderanno ancora più strategico l’investimento e la spesa globale per eserciti e armi. E non solo per mantenere in efficienza i vecchi arsenali, ma per costruirne di nuovi, sempre più sofisticati.

Non è un caso che ieri in piena pandemia, mentre il New York Times pubblicava una prima pagina di assoluto dolore con i nomi di mille morti per coronavirus, la Marina militare americana sperimentava una nuova bomba laser e il Pentagono mandava in orbita per la sesta volta lo shuttle senza pilota, missione spaziale supersegreta per testare le guerre del futuro, che si combatteranno tra i satelliti di comunicazione e di geolocalizzazione. Zitti, signori, c’è Covid-19.

Così se sul piano della salute e della sanità globale si continua a balbettare con risposte parziali, spesso insufficienti, sicuramente spartite in tema di uguaglianza tra Paesi ricchi e Paesi poveri e volte, nel contrappunto tra sanità pubblica e privata, anche all’interno degli stessi Paesi, su quello della sicurezza presunta del possesso delle armi e del controllo delle future cyberwars, non vi è alcuna incertezza di analisi e di investimenti. Così la denuncia di Papa Francesco nell’enciclica più evocativa e criticata del Pontificato, quella Laudato si’ che ha colpito la coscienza globale cinque anni fa, torna con prepotenza al centro del dibattito per il suo drammatico spessore profetico e la sua dolorosa attualità.

Oggi la pandemia ha solo confermato ciò che Bergoglio lì scriveva e cioè che le tradizionali ricette sullo sviluppo e la crescita ad ogni costo sono diventate obsolete. Francesco è l’unico preoccupato del fatto che no, non andrà tutto bene. E non per caso domenica ha annunciato un anno di riflessione approfondita sulla Laudato si’. Nell’enciclica invitava a cambiare radicalmente il paradigma del progresso e avvertiva che le vie di mezzo sull’argomento «sono solo un piccolo ritardo sul disastro». La spesa militare ne costituisce una parte cospicua.

Qualche giorno fa il Sipri di Stoccolma, il più autorevole osservatorio mondiale sulla questione, ha pubblicato il Rapporto annuale, finito nell’oblio informativo per via della pandemia. Ma i numeri fanno impressione. Mai dalla caduta del Muro di Berlino la spesa militare globale ha raggiunto di livelli di oggi: duemila miliardi di dollari, +7,2% dal 2010, +3,6% dal 2018. Si tratta del 2,2 % del Pil del mondo intero, cioè 249 dollari a persona.

Cosa potremmo fare con una parte di quella cifra per i nostri sistemi sanitari? Al primo posto ci sono naturalmente Usa e Cina player e competitor insieme, poi l’india, tutti Paesi che possiedono anche le chiavi dei farmaci. Davvero la produzione,il possesso e la grande capacità di commerciare armi è del tutto indifferente nella competizione, o almeno nella sua percezione tra le opinioni pubbliche, per la produzione scientifica e sanitaria di un vaccino per Covid-19?

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