L’industria europea e il rischio «dodo»

MONDO. L’Unione europea rischia di rimanere l’unico erbivoro in un mondo di carnivori. Così avrebbe detto una volta Pascal Lamy, economista e politico francese, già Commissario Ue al Commercio e poi direttore generale dell’Organizzazione mondiale del commercio.

Apocrifa o meno che sia, la citazione è di notevole efficacia, specie alla vigilia delle prime elezioni per il Parlamento europeo – da quando a Bruxelles fu introdotto il suffragio universale nel 1979 - che si terranno mentre ci sono due guerre in corso ai confini del nostro continente, in Ucraina e Medioriente. E mentre la competizione economica del «Sud del mondo» è sempre più palese. Ieri, al G7 delle Finanze a Stresa, il ministro dell’Economia italiano Giorgetti ha invocato non a caso «una linea comune» rispetto alla «sovracapacità cinese che si riversa sugli altri mercati», senza escludere dazi europei rispetto a certi prodotti «made in China».

Mai come oggi è chiaro, per esempio, che se l’Unione è un erbivoro in un mondo di carnivori, allora l’industria automobilistica del nostro continente assomiglia al più innocuo degli erbivori, cioè al dodo. Diventato popolare grazie a «Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie» di Lewis Carroll, il dodo è noto nel mondo reale per la sua triste parabola evolutiva: da volatile di grosse dimensioni che scorrazzava nelle isole Mauritius, incapace di volare – si presume – in ragione della grande disponibilità di cibo e della relativa assenza di predatori sull’isola, si è rapidamente estinto alla fine del XVII secolo dopo essere entrato in contatto con l’uomo e soprattutto con i suoi accompagnatori, cioè cani, maiali e macachi carnivori.

Oggi l’industria automobilistica occidentale, a lungo un vanto tecnologico globale e un polo d’attrazione per decine di migliaia di lavoratori, rischia di fare la fine del dodo di fronte alla comparsa e alla rapida ascesa delle vetture elettriche cinesi a basso costo. Le nostre Case automobilistiche, abituate a cullarsi sugli allori del proprio primato, perdono inesorabilmente terreno incalzate dalle sfidanti dell’ex Impero celeste, con il rischio addirittura di estinguersi da qui a un futuro non troppo lontano.

Di fronte a un simile scenario, Stati Uniti e Unione europea hanno scelto finora strade diverse. Da una parte c’è il mercato europeo dell’automotive, uno tra i più aperti del mondo, con dazi più bassi rispetto agli altri blocchi economici. Allo stesso tempo Commissione e Parlamento Ue si sono dedicati a un’intensa attività regolatoria che, con l’obiettivo di accelerare la transizione ecologica del comparto, è arrivata a definire quale debba essere il motore del futuro, quello elettrico, mettendo al bando a priori altre tecnologie – dai motori termici (inclusi quelli ibridi) ai biocarburanti -, e stabilendo fin da oggi la tempistica di tutto questo processo. Un esercizio dirigista senza pari al mondo, che fino a un decennio fa sarebbe stato giudicato irricevibile in un’economia sociale di mercato come quella europea, e che ha complicato non di poco il futuro industriale di alcune Case automobilistiche. Il tutto mentre altri produttori europei, specie quelli tedeschi, hanno deciso di investire e aprire fabbriche in un mercato decisamente più vasto e promettente, quello cinese, con meno vincoli ambientali, per arrivare perfino a costruire lì modelli da esportare... in Europa! Alla luce di tutto ciò, la parabola dell’auto «made in Europe», in assenza di radicali correzioni di rotta, potrebbe presto ricalcare quella esiziale del dodo.

Negli Stati Uniti, invece, il mercato dell’auto rimane libero per i produttori stranieri che hanno aperto fabbriche nel Paese e per quelli che producono all’estero senza ricevere sostegni palesi o occulti dai propri governi. Allo stesso tempo, però, Washington sta erigendo un muro sempre più alto di fronte alla concorrenza sleale di Pechino, come dimostrano i dazi del 100% sulle auto elettriche cinesi annunciati a metà maggio dall’Amministrazione Biden. La stessa Amministrazione che, nel 2022, invece di sbizzarrirsi nel creare regole e vincoli, ha varato un piano di sostegno finanziario all’innovazione green nell’industria, con generosi incentivi per aziende automotive e di componentistica che decidono di impiantarsi negli Stati Uniti. Una strategia per salvaguardare know-how tecnologico e posti di lavoro. L’automotive americano insomma non vuole finire come il dodo, preferisce seguire le orme di un altro animale, il lupo grigio, che è andato vicino all’estinzione e poi invece – anche grazie a interventi legislativi emergenziali - è riuscito a ripopolare la zona dei Grandi Laghi. La scommessa americana è lungi dall’essere vinta, ma almeno, anche nella peggiore delle ipotesi, non sarà una sconfitta a tavolino come quella che rischia l’Europa.

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