Lo sfregio a Bara, la pietà
verso i morti pilastro di civiltà

«Parce sepultis», diceva mia nonna senza abbandonare le incombenze domestiche, quando qualcuno se la prendeva con chi non c’è più, ignorando fosse un verso dell’Eneide di Virgilio. Significa perdona a chi è sepolto e invita a non parlar male dei defunti, chiunque essi siano e qualunque cosa abbiano fatto o subìto, qualunque colpa abbiano commesso o qualunque torto o ingiustizia siano stati vittima. La pietà per i morti è uno dei pilastri della civiltà e della fede cristiana. A questo pensavo guardando la foto della

lapide presa a mazzate o forse a pietrate di Mamadou Lamine Thiam, il giovane ritrovato senza vita in un burrone a Ubiale Clanezzo la sera del 23 luglio 2017.

Le immagini sono state diffuse sui social network da un’amica del giovane. Mostrano la lapide del ragazzo, immersa in una vegetazione selvaggia come l’animo di chi ha quell’età, tra il muschio che la circonda e l’orizzonte di colline dolci. La lapide è molto semplice. Reca il nome del ragazzo e gli anni della sua breve vita, un soffio, dal 1997 al 2017, vent’anni, quelli più belli o più complicati, dipende dai punti di vista, se sei il gioioso e rinascimentale Lorenzo il Magnifico («quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia») o il filosofo «maudit» Paul Nizan («Avevo 20 anni e non permetterò a nessuno di dire che è l’età più bella della vita»). Mi chiedo chi abbia potuto fare una cosa del genere, avvicinarsi con una mazza sulla lapide e distruggerla, profanarla, dare calci al mazzo di fiori, sfregiarne il volto ritratto nella foto, ridurla in schegge che ancora penzolano su quell’ostensorio che si staglia sul panorama di colline e cespugli.

«Io non so cosa ci sia nel cuore della gente», ha commentato con grande amarezza l’amica del giovane, «ma non possiamo non rimanere indignati quando la lapide di un ragazzino morto a vent’anni viene presa a calci e rotta con una mazza. Forse avete distrutto il marmo, ma il vostro odio non potrà mai distruggere l’amore che noi porteremo fino all’ultimo giorno al nostro amico».

La morte di Mamadou non è stata naturale, non è morto nel suo letto, come si dice. È stata una cosa atroce. Del ventenne si erano perse le tracce la notte del 22 luglio 2017, quando era scappato da una festa in paese, la Ubiale Power Sound Festival, dopo un litigio con un ragazzo, inseguito da alcuni dei presenti.

La procura di Bergamo ha chiuso le indagini attorno alla vicenda: secondo gli inquirenti Mamadou si è buttato nel precipizio in cui ha trovato la morte per sfuggire agli inseguitori. Per i fatti di quella notte, il pubblico ministero Fabio Pelosi ha iscritto nel registro degli indagati cinque persone, di cui tre rinviate a giudizio.

Ma non è questa la sede per approfondire quella vicenda dolorosa e misteriosa, qui si tratta di parlare della pietà verso i morti, lodata nella Scrittura come opera di misericordia. Perché rispettare i morti, seppellirne le ossa, è un segno del «doloroso compatire», come scrive Sant’Agostino, poiché «è quello che si vorrebbe fatto a sé quando non si sentirà più, e dunque va fatto, mentre ancora si sente, a chi ormai non sente più».

Per questo quel gesto così deplorevole non deve essere sottovalutato. Anche Mamadou ha diritto di riposare in pace, la sua tomba immersa nella natura è solo un piccolo ammonimento alla fratellanza tra gli uomini, un monumento contro l’indifferenza. «Guardiamo schizzinosi i telegiornali quando vediamo che un uomo nero viene soffocato da un poliziotto», ha scritto indignata la sua giovane amica «non possiamo non rimanere indignati quando la lapide di un ragazzino morto a 20 anni, viene presa a calci e rotta con una mazza». Come darle torto?

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