Lo skyline di Milano
e quel fumo che fa paura

Gli esperti rassicurano. O meglio: assicurano. Perché rassicurarti, quando il cielo sopra casa e il nido dei tuoi piccoli ricorda la Pechino dei giorni peggiori, e l’odore per la strada quello di un copertone brustolito, è più difficile. Non che a Milano si respiri di norma essenza di lavanda, ma insomma. Quel che succede in queste mattine quando si esce di casa è davvero inquietante. Inusuale, per una città che da qualche anno ha decisamente svoltato verso ambizioni da capitale europea, expo, skyline, archistar, chef pluristellati.

Solo che ora scopriamo che il passo da terra dei cuochi a terra dei fuochi non è poi così lungo. Scusate il gioco di parole, discutibile. Ma fatto sta che domenica notte, praticamente da ogni punto della tangenziale, si scorgeva il bagliore arancio fuoco delle fiamme che salivano per quaranta metri dal deposito di rifiuti carbonizzato a Quarto Oggiaro. E nel nero della notte, spaventava il nero ancor più nero della colonna di fumo denso e carico di chissà cosa che scavalcava la città, volando verso nord ovest. Migliaia di metri cubi di qualsiasi cosa, in cenere e fumo. Fa impressione, questa vicenda. Non solo per chi vive a Milano. Fa impressione perché Milano ha tanti simboli, ma in questi anni ha costruito la sua fama, la sua fortuna, il suo «sentiment» internazionale, sull’estetica, sull’innovazione urbana e architettonica. Non che il Giambellino non esista più, anzi. La forbice si è allargata. Tanto più luccicano i super attici di City Life, e i palazzi di piazza Gae Aulenti, tanto più sono decrepite le palazzine popolari, dove ormai fa notizia una facciata che ancora c’è, una finestra che non sia murata, un citofono che non sia divelto. Ma sul palcoscenico, Milano ha messo un altro volto, quello che quando ci entri ti stupisci ancora che sia Italia, Milano. Perché potresti essere in una moderna città americana, o tedesca, fors’anche araba. Comunque, in un luogo che concentra in sé i migliori talenti della progettazione e della costruzione. Un salto di qualità fuori discussione.

Poi, però, brucia Quarto Oggiaro. E insieme, un altro deposito di rifiuti. E allora occorre domandarsi cosa ci sia «dentro» Milano (e non solo: quanti sono gli incendi di probabile origine dolosa che contiamo anche nella nostra provincia, negli ultimi mesi?), «sotto» Milano. Cosa resti, cosa stia crescendo, cosa si sia annidato. Troppo forte l’analogia tra i rifiuti che bruciano in Campania e questi incendi. Troppo sincronizzata l’esplosione dei due roghi. Troppo chiaro il messaggio. E troppo facile fare il collegamento tra malavita e smaltimento dei rifiuti. Non è autocombustione, a metà ottobre: quel fumo ricorda Gomorra. Questo incendio chiama in causa Milano e i suoi anticorpi, che se ci sono è ora che si diano una mossa. Ma non solo. Da decenni si dice, anzi si sa, che i confini del malaffare si sono spinti al nord. E che l’illusione che certe vicende siano «cosa loro», dei meridionali, è ora di metterla da parte. Dove c’è il «grano», c’è il malaffare che fa business mimetizzandosi alla perfezione. Finché tutto fila liscio, le balle di rifiuti vanno per la loro strada e tu che ne sai.

Ma al primo intoppo, ecco la carta d’identità. Fiamme di quaranta metri, giorni di «nebbia» e naso e occhi che pizzicano, le chat delle mamme delle scuole che friggono di paura, gli esperti che rassicurano ma sotto sotto non gli crediamo troppo, e tenete le finestre chiuse, sì, va beh, ma basterà. Quarto Oggiaro non può passare così, come un incidente di percorso, che prima o poi si spegne, arriva la pioggia, torna il sole e passa la paura. Milano, la Lombardia, noi, se conserviamo ancora qualcosa degli anticorpi da capitale morale, reagisca, reagiamo. Altrimenti quella resta solo un’etichetta stantia, uno stereotipo di carta straccia. Che basta un innesco, e brucia in una notte.

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