Lo Stato padrone
È tornato di moda

Sta tornando lo Stato padrone? A giudicare dalle voci esultanti provenienti dal Governo dopo l’accordo con Autostrade per l’Italia (peraltro tutto da verificare) che vede l’ingresso della Cassa depositi e prestiti e l’uscita progressiva dei Benetton, sembrerebbe di sì. S’ode a destra uno squillo di tromba:
i Cinque Stelle esultano, alcuni addirittura ci fanno sopra un video alla Marcel Marceau, come l’ex ministro Toninelli. A sinistra risponde uno squillo, con Zingaretti e Franceschini che plaudono all’iniziativa. Il premier Conte assicura che «l’interesse pubblico ha avuto la meglio su un grumo ben consolidato di interessi privati». E così ancora una volta il pendolo della storia economica si rimette in moto. Stiamo infatti facendo un passo indietro di almeno 50 anni, se non di settanta, in piena era fascista, se vogliamo rimanere all’età contemporanea.

È infatti con Benito Mussolini e Alberto Beneduce che comincia l’epoca delle partecipazioni statali, ovvero della mano pubblica nelle imprese private.

L’Iri (acronimo di Istituto per la ricostruzione industriale) nasce nel 1933 come accumulatore di aziende di ogni tipo, dall’acciaio all’alimentare. L’ente possedeva la Buitoni, che faceva concorrenza all’Alemagna o alla Motta, con conseguenze non da poco sul piano dei vantaggi, poiché le risorse di uno Stato sono teoricamente illimitate, a differenza dei privati. La tendenza non cambiò nel Dopoguerra, tanto è vero che nel 1956 venne istituito un apposito dicastero, il ministero delle Partecipazioni statali (quasi sempre appaltato da un democristiano, a parte l’eccezione dei socialisti Lami Starnuti e De Michelis). Lo Stato padrone possedeva di tutto, regolava di tutto e si faceva mungere da tanti. Fino agli anni ’80 intervento statale era sinonimo di contributi a fondo perduto, crediti agevolati, premi, monopoli, finanziamenti ad aziende di interesse nazionale in crisi. La Cassa del Mezzogiorno pensava a fornire munificamente crediti per le imprese del Meridione, dimenticandosi di chiederli indietro.

Fino agli anni ’80 lo Stato padrone (con i suoi «boiardi di Stato», come avevano definito i suoi manager Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani, per via del loro immenso potere quasi feudale) ha sperperato con larghezza. Poi è arrivata l’Europa, che impedisce il regime di monopolio e gli aiuti pubblici. Il pendolo cominciò a mettersi nuovamente in moto e la parola d’ordine è diventata privatizzazione, quasi un’ovvietà. Dagli anni ’90 in poi (quando il ministero delle Partecipazioni Statali fini per dissolversi inglobato dal Tesoro) i governi dovevano ritagliarsi il ruolo di arbitro, nel nome del «laisser faire, laissez passer». I trattati dell’Unione imponevano di applicare in maniera più rigorosa le norme dei trattati, che in sostanza configurano un’economia basata sul libero mercato, con lo Stato che si limitava a fare da regolatore.

Oggi stiamo ritornando alla mano pubblica. Qualche esempio? Alitalia è nelle mani pubbliche, l’Ilva probabilmente ci finirà presto. Tesoro e Cassa depositi e prestiti (alimentata con i conti correnti postali) tra Eni, Leonardo, Terna e altre aziende ed enti ha partecipazioni che coprono il 30 per cento di Piazza Affari. Lo scopo supremo di questa politica economica, peraltro nobilissimo, è la tutela dell’occupazione. L’altra faccia della medaglia è il venire meno della libera concorrenza. E l’Unione? Oggi Bruxelles, giustamente, chiude un occhio, spesso anche due, di fronte alla crisi devastante provocata dalla pandemia, poiché non sono questi i tempi per fare il cane da guardia. E ora la sbandierata operazione Autostrade per l’Italia, in cui lo Stato diventa non solo padrone, a ben vedere, ma anche monopolista (anche se il monopolio di beni considerati pubblici, come i trasporti, è garantito dalla Costituzione). Insomma, da arbitro a padrone, come ai vecchi tempi.

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