Ma a qualcuno interessano le ragioni di esistere?

ITALIA. C’è un dramma incancellabile nell’esperienza del morire dell’uomo. Tragico, di fronte a cui religioni e filosofie hanno lasciato infrangere lo sciabordio del loro domandare, senza trovare la risposta definitiva.

Non vuol dire che si siano interrogate inutilmente: pur sapendo che il fondo della notte può essere cambiato solo dall’arrivo di un’eventuale aurora, non è insensato cercare una luce sufficiente per rischiarare il buio, quel tanto che basta. Perché nudi anche di risposte flebili, di fronte alla morte si starebbe non solo scomodi, ma paralizzati: a cosa servirebbe vivere, se l’esito fosse un copione già scritto, che non prevedesse la nostra presenza sulla scena? Senza la debole compagnia di una gracile risposta, si resta impotenti. Perché esposti come in nessun altro momento all’insolvibile enigma della vita umana.

La condizione dell’essere mortali – carne e cellule con la data di scadenza, che tornano al nulla da cui un giorno hanno cominciato a esistere – diventa ancora più drammatica e insostenibile quando accade dentro una scelta, più o meno di libertà. Quando il morire diventa disperatamente voluto. È difficile anche solo farfugliare qualcosa di fronte al gesto suicida, perché si ha l’impressione di violare un sacrario di silenzio, di sollevare una coltre di rispetto che non deve essere rimossa, stesa a protezione di parole sempre troppo facili e troppo insufficienti, a cui non si è disposti. Togliersi la vita è un atto non proporzionato, che comporta due lutti: quello di chi se ne va, e quello di chi resta, con i suoi sensi di colpa. C’è un eccesso di morte che ha dell’insostenibile, al cui cospetto è opportuno umanamente tacere.

Dante stesso colloca due suicidi illustri della Storia in due regioni diverse della sua geografia dell’aldilà, con una sorta di imbarazzo che fa eccezione rispetto alla sua scelta, letterariamente molto perentoria, di assegnare colpe e riscatti. I due sono il letterato Piero delle Vigne, posto nella selva del XIII canto dell’Inferno, e Catone, che si incontra come guardiano del Purgatorio. Uno dannato, l’altro dove comincia la speranza della salvezza. È una sorta di giudizio sospeso, quello che Dante mette in scena: c’è certamente del grave nel togliersi la vita, ma l’ultima parola viene riservata a una misericordia non umana, al cuore di Dio.

Eppure, questo imbarazzo che rinvia ad altro non basta. C’è un compito collettivo a cui come società di uomini e donne non si può venire meno senza sentirsi codardi. Non è solo quello della consolazione e della presenza accanto a chi è stato svuotato dal dolore che emana dal contatto con tale esperienza. È la responsabilità umana di tornare a tessere, pazientemente, risposte fragili che rendano la vita vivibile. Non nel senso che si debba voltare velocemente pagina, come vorrebbe segretamente il rito sociale della commozione contemporanea, che si trova a disagio a restare nel dolore più di un paio di giorni. No.

Piuttosto si tratta di fare i conti con un terzo lutto, che riguarda tutti, come comunità umana alla ricerca dei suoi significati e dei suoi valori dentro cui incanalare il misterioso dono del tempo, il fatto di esistere. Perché l’atto suicida rivela che una vita se n’è andata poiché, in mezzo a tutto questo, non ha trovato sufficienti ragioni per vivere. È anche un fatto sociale il suicidio, perché interroga una società, con i suoi simboli e la sua cultura, in merito alla sua capacità di proporre ragioni di vita, di offrire motivazioni per cui valga la pena continuare il duro mestiere dell’uomo sulla terra. E a volte l’interrogativo colpisce un nervo scoperto: rivela che la società della salute, del benessere, del digitale e del consumo ha elaborato insufficienti motivazioni per vivere, distratta dai lustrini dei suoi miti.

Vivere è più che essere vivi e respirare. Ed è un’esperienza che pretende di poter sperimentare come non vuote di senso anche cose che hanno a che fare con il difficile che attraversa la vita: la delusione da sé, la malattia, la realtà dei fatti, la vecchiaia.

Lo sapevano già i greci, che con le loro parole antiche hanno provato ad afferrare i lembi di questo mistero. Avevano tre parole per dire vita: zoé, bios e psyche. Zoé (da cui «zoo») è la vita che abbiamo in comune con le piante e con gli animali. Bios (da cui «biologia») è il modo in cui viviamo, che rende tipicamente e squisitamente umano il nostro approccio all’esistere. Psyche (da cui «psicologia») è la vita che scorre dentro di noi, lì dove stanno amori, significati, speranze, lotte, ricordi e altri tesori.

Possiamo legittimamente chiederci se la società dei test attitudinali e del fitness, della dieta a zone e dei social media, dell’efficienza e dell’eterna giovinezza abbia dato solidità alle ragioni di vita che servono per vivere in essa. La notte rimane, sempre, ma chi è rimasto a interessarsi all’ampiezza delle ragioni di esistere?

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