Mascherine bloccate ai confini,
l’Italia fa da sé. È l’economia di guerra

Qualcuno ha visto l’Europa in questa emergenza terribile di cui stiamo pagando un prezzo inaccettabile? Il motto sembra essere ognun per sé e Dio per tutti. L’unione si è frantumata come una pallina di mercurio. Una, dieci, ventisette Brexit. La prima grande conquista europea, scoppiata come una bolla di sapone, è stata il Trattato di Schengen, entrato in vigore nel 1995, che prevedeva tra le altre cose la libera circolazione delle merci per 400 milioni di abitanti, uno dei capisaldi dell’Unione europea. E il bello è che Schengen ci ha mollati proprio quando ce n’era più bisogno.

Basterebbe ricordare la questione delle mascherine, richieste dall’Italia e bloccate alle frontiere di mezz’Europa, dalla Francia alla Romania, Germania compresa. C’è voluta la minaccia della Commissione europea di procedure sanzionatorie nei confronti di Berlino per sbloccare la situazione. Gli Stati membri infatti devono garantire la libera circolazione di «prodotti essenziali come la fornitura di alimenti, medicinali e materiali protettivi». Ma in questo caso se ne sono fregati.

I danni economici di questo virus sono giganteschi. Il coronavirus, che ha creato una pandemia grazie alla globalizzazione, ha interrotto la catena delle forniture che la globalizzazione ha distribuito nel mondo. Le multinazionali sono state colpite in molti gangli vitali. Non solo, questo mostro che non ci dà tregua ha anche svuotato la finanza, mettendo al tappeto le borse di tutto il mondo. La presidentessa della Bce Madame Lagarde, soprannominata Madame Lagaffe, non lo aveva ancora capito e non sembra che gliene importasse molto. Tra l’altro mai come l’economia reale è sembrata aver assunto importanza a scapito della finanza in questa vicenda.

A questo punto non è rimasto che un rimedio: la produzione in casa propria, a cominciare di tutti quei materiali necessari ad affrontare quest’emergenza. L’Italia è un popolo di esportatori, ha una vocazione globale, ma a mali estremi, estremi rimedi, la capacità imprenditoriali, le risorse e i talenti non le mancano per riconvertire l’industria come avviene in caso di guerra (e infatti questa è una guerra). Se non circolano le attrezzature sanitarie fondamentali per contenere la diffusione del Covid 19 e curare i malati allora ce le fabbrichiamo, dalle mascherine alle tute, ai ventilatori polmonari, dai disinfettanti alle altre attrezzature, fino a tutti quei prodotti necessari ad affrontare una pandemia e rinchiudere un popolo di sessanta milioni di abitanti in casa per settimane. Potremmo chiamarla «autarchia d’emergenza» o in qualche altro modo, ma la sostanza non cambia.

Del resto molte decisioni del governo per fronteggiare l’epidemia vanno in questo senso. A partire dalla nomina di Domenico Arcuri commissario per l’emergenza. Il manager Arcuri infatti sta lavorando «per rafforzare la produzione e la distribuzione delle apparecchiature di terapia intensiva e avrà il potere di impiantare nuovi stabilimenti». Anche l’entrata a regime dello stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze rientra in queste misure. In Italia esiste solo un’azienda in grado di produrre ventilatori destinati ai reparti di terapia intensiva, la Siare Engineering di Bologna, dove per mantenere il ritmo di produzione il governo ha inviato a collaborare l’esercito. Ci sono già due importanti marchi legati ai tessuti che hanno riconvertito in parte la loro produzione destinandola alle mascherine. La seconda grande frana della globalizzazione, dopo quella del 2008, ha inevitabilmente ridisegnato il modello economico degli Stati, a partire dal nostro. Naturalmente non torneremo a una chiusura di tutti i comparti (è impossibile), ma farci trovare in piedi per la prossima emergenza sarà necessario. Siamo in guerra. E dunque adottiamo un’economia di guerra.

© RIPRODUZIONE RISERVATA