Mea culpa di Juncker
e la prova italiana

Non è difficile credere all’autorevole sondaggista che, intervistata in tv, dice: «Il mea culpa di Juncker fomenta il clima di tensione». Non è difficile, perché ai più sono sembrate tardive e anche un po’ ipocrite le parole con cui il presidente della Commissione europea ha fatto autocritica sulla linea di austerità inflessibile che l’Europa tenne nei confronti della Grecia, «salvata» dalla Troika a prezzo di un impoverimento che ancora oggi fa scandalo, con troppa gente che non può permettersi nemmeno le medicine per curarsi.

Le parole di Juncker ricordano quelle pronunciate qualche tempo fa da Angela Merkel che si dolse di come la Grecia, culla della civiltà occidentale ed europea, sia stata ridotta dai suoi creditori (a cominciare dalle banche tedesche). È pur vero che sia Juncker che la Merkel furono condizionati dai falchi europei - il ministro delle Finanze di Berlino Schaübleä e i governanti del Nord, a cominciare dai soliti olandesi e finlandesi - ma furono proprio loro due a sottoscrivere quella «punizione» nei confronti dei greci spendaccioni e indebitati.

«Non volevamo colpire lavoratori, disoccupati e pensionati…» dice oggi Juncker ma appunto – come sostiene la sondaggista – quelle parole non possono che suonare false, ovemai le ascoltassero, ai cento milioni di poveri che in Europa - il Continente dei record economici, dall’export al Pil pro capite – ora contiamo. È l’austerità che ha decretato la morte dell’ideale europeista nei cuori dei suoi abitanti: sia in chi l’ha inflitta, sull’onda di un giudizio impietoso delle formiche del Nord verso le cicale del Sud; sia di chi l’ha subìta nella sua vita quotidiana al pari del bambino che riceve uno schiaffo da un genitore ingiusto. In entrambi i soggetti collettivi è mancata la «solidarietà» cui adesso fa appello Juncker che si rammarica di aver dato troppo potere ai tecnocrati del Fondo monetario nell’affondare il bisturi senza anestesia sul corpo del «malato».

Domanda: e in Italia? Test interessante. Dal momento che siamo l’unico Paese dell’Unione che ha al governo una coalizione maggioritaria tutta di forze sia sovraniste che populiste che tra loro litigano molto ma che hanno entrambe un forte sentimento di rivalsa nei confronti dell’Europa, della Commissione, dei «tecnocrati» di Bruxelles e promettono a maggio, alle elezioni per il nuovo Parlamento di Strasburgo, di dare l’assalto al Castello. Il loro successo, è stato scritto mille volte, è frutto di una reazione contro tutte le «caste», sia nazionali che europee e delle loro politiche di austerità. Reazione che nonostante le liti assicura a questo governo circa il sessanta per cento di consenso elettorale anche dopo che la sfida all’Europa sulla manovra di Bilancio è stata in gran parte perduta, e anche malamente. Ma proprio in questi mesi di governo gialloverde, mosso dalle reazioni anzidette, è aumentata l’opinione pro-euro e pro-Europa degli italiani. Oggi, dicono gli istituti demoscopici, chi promuovesse un referendum per l’«Italexit» perderebbe.

Come si spiega? Si spiega con un buon senso che gli italiani, intesi come corpo elettorale, ancora dimostrano. Si sentono più sicuri, in questo pazzo mondo sconfinato, al riparo dell’edificio europeo, e sanno benissimo che l’Italia da sola nella competizione globale sarebbe travolta. Ma nello stesso tempo gli italiani non vogliono più un’Europa matrigna ossessionata dai saldi di bilancio e incapace di essere solidale e «umana» verso i suoi cittadini. Verrebbe da dire: un vasto programma per i riformisti europei ed italiani. Se ci fossero.

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