Meno figli, assurda
teoria ecologista

È l’ennesima soluzione semplice di un tema complesso. Eppure se ne straparla dappertutto ed è anche uno dei temi della pessima campagna elettorale americana. L’idea non è nuova e potrebbe anche essere una buona soluzione. Ma dipende dal punto di vista. Come si fa a salvare il pianeta e ad evitare la catastrofe climatica? Semplice, facendo meno figli. La soluzione estrema della decrescita felice dell’umanità è tagliare l’uomo e non i consumi inopinati, cioè i sovra-consumi inutili e folli, e ricostruire una diversa economia chiamata «circolare» dove gli sprechi s’abbattono e dove il riciclo è pratica virtuosa. No, troppo complicato, meglio usare l’accetta e cancellare l’impronta ecologica, nel senso di non calcolarla più. Meno gente, meno consumo, meno CO2. Soluzione lapalissiana, talmente ovvia da essere ridicola.

Eppure ci sono fior di rapporti, studi e analisi, anche se la cosa non è affatto nuova datando almeno dal 1968 quando apparve un volume che fece storia e polemica dal titolo già allora evocativo «Population bomb». L’ultimo della filiera è uno studione della Università svedese di Lund, che ha elaborato una quarantina di altri studi e report ambientalisti di mezzo mondo, per arrivare alla conclusione che mettere mano a buone pratiche di ecologia integrale costa troppo e dunque occorre diminuire la popolazione. Il calcolo che si fa è quello dell’impronta ecologica che ognuno di noi ha, esattamente come le impronte digitali, e indica quante emissioni produciamo. I professori svedesi hanno calcolato che un bambino che nasce oggi produce ogni anno 60 tonnellate di CO2 all’anno.

Se evita di nascere si risparmia e non ci sarà bisogno di avviare quelle costosissime politiche green che, secondo le analisi contenute nell’Accordo di Parigi sul clima, richiedono almeno 550 miliardi di dollari l’anno e che i Paesi occidentali ricchi e inquinanti non hanno alcuna intenzione di scucire. Il metodo più semplice è ridurre la popolazione mondiale: via almeno 500 milioni di persone entro il 2050, anno in cui secondo le proiezioni dell’Onu, dovrebbe arrivare a 10 miliardi. Semplice, no? In America c’è anche un movimento di donne che si chiama Ginks, acronimo che tradotto significa letteralmente «Impegnate per l’ambiente no figli». Tralasciando i presupposti scientifici di una teoria che sbaraglia ogni azioni ecologica a favore di prospettive eugenetiche maltusiane, quelle che adattano la crescita demografica alle risorse economiche, il sentore che se ne ha è che si tratti di una teoria (vagamente) razzista.

Chi deve smetterla di fare figli? La grassa Europa che già sfiora la crescita zero e quindi è abbastanza «virtuosa»? O l’America? O il ricco Giappone o la ricchissima Cina, che per altro ha appena fatto retromarcia sulla politica del figlio unico? È evidente che a fermarsi dovranno essere africani e asiatici, insomma i Paesi poveri dove i figli sono l’unica vera ricchezza. Ma la fantasiosa teoria non sta in piedi anche perché con più vecchi e meno giovani non è affatto vero che si diminuiscono i consumi. Inoltre si perde in innovazione, si blocca la ricerca, non si rinnovano classi politiche pachidermicamente sedute sulla conservazione, poco creative, spaventate da ogni nuovo dinamismo sociale. Greta Thunberg ha 16 anni e non 80. Chi starà più attento a consumi sostenibili e produrrà idee, chi può dare forza al cambiamento sono i nostri figli. Noi possiamo permetterci di essere pessimisti. Loro no. Lo ha ben capito Papa Francesco, che per discutere di nuova economia, più green e più dignitosa ad Assisi tra poco non ha invitato i soliti noti, ma i giovani economisti, quelli di domani, quelli con le idee nuove.

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