Migranti, trent’anni
di mancati progetti

Li abbiamo costretti alla fame. Tra le righe delle centinaia di pagine del Rapporto della Caritas sull’immigrazione nel nostro Paese c’è una manciata di parole pesanti che descrivono una vergogna. Non è accaduto ovunque, ma bastano pochi casi per preoccuparsi. È la conferma che una parte del Paese e di chi lo governa fa della cattiveria la cifra dell’amministrazione. Come quei sindaci che mettevano i braccioli di traverso sulle panchine per impedire ai senza tetto di dormirci la notte, come chi chiude i bagni pubblici, come chi strappa le coperte a chi dorme per le strade reclamando motivi di pubblico decoro. Così «molti Comuni», denuncia la Caritas, hanno contravvenuto ad un diritto «basilare e inviolabile» e con creative delibere hanno negato il bonus spesa agli immigrati.

La tentazione delle discriminazioni continua ad essere in agguato. A volte è deliberata e sostenuta da odiose motivazioni ideologiche e politiche, che hanno fatto scattare in alcuni amministratori la ricerca certosina di norme dimenticate e di interpretazioni fantasiose. Altre volte è un problema solo di dabbenaggine burocratica, applicazione alla lettera di regolamenti immutabili. Per esempio, il requisito della residenza anagrafica. Se manca, niente bonus spesa, aveva deciso per esempio il Comune di Roma al tempo del lockdown. Dovette intervenire il Tribunale civile per scardinare la delibera comunale. Nessun problema si affronta e si risolve senza un adeguamento più dinamico e flessibile rispetto all’utenza. Soprattutto quando si tratta di norme delle istituzioni più vicine ai cittadini come regolamenti e delibere comunali e quando l’utenza, gli stranieri, è caratterizzata da evidenti e forti livelli di debolezza sociale e sperequazioni demografiche e culturali.

È solo un esempio, ma è un spia accesa sul cruscotto della società italiana. Molti comportamenti vengono giustificati per ignoranza o perché si crede a chi urla in piazza e sui social alla presunta invasione e alla rovina dei nostri valori. Non è un caso che il Rapporto sia intitolato quest’anno «Conoscere per comprendere». Viene pubblicato da 29 anni, dai tempi della grande immigrazione dall’Albania con le navi piene che si affacciavano alle coste pugliesi. Allora scattò la solidarietà italiana. Poi siamo diventati egoisti e cattivi. Non andiamo più a prendere gli immigrati con le nostre navi, come facemmo trent’anni fa quando l’ ambasciata a Tirana si riempì di gente che voleva fuggire dalla paranoia del regime delle aquile. Calammo cibo e aiuti perfino con gli elicotteri militari nelle montagne albanesi per sfamare villaggi irraggiungibili. Scattò all’epoca una solidarietà guascona, qualcuno ne approfittò come sempre accade. Abbiamo avuto 30 anni per costruire un progetto e li abbiamo sprecati.

La Caritas lo ricorda tutti gli anni nel suo Rapporto. Oggi gli immigrati in Italia contribuiscono per 139 miliardi al Pil nazionale. Ma nessuno lo sa. Pagano una montagna di tasse e contributi previdenziali che si usano per pagare le pensioni agli italiani. Senza di loro, il sistema non reggerebbe. Eppure da trent’anni siamo alla ricerca di una strategia, tra leggi sbagliate, norme farraginose e volutamente complesse da sfiorare la discriminazione, passi avanti e clamorosi dietrofront. Siamo in buona compagnia insieme a quasi tutta l’Europa, che fece il Regolamento di Dublino e non si rese conto che non avrebbe retto all’impatto della crisi globale. Adesso si è deciso di cambiarlo, ma manca un accordo e l’approccio al problema è inchiodato sul solito contrappunto tra sicurezza e assistenzialismo. Potremmo cominciare con il linguaggio. Non più immigrati, ma solo cittadini.

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