Nel ricordo della guerra
l’impegno per la pace

Quattro novembre, anni ’50. Sono un ragazzino delle elementari e so che è vacanza. So anche che si tratta di una vacanza diversa dai due giorni precedenti, quelli dei Santi e dei Morti, legati alla Messa e alla visita al cimitero. So che non è un giorno vuoto, una vacanza ponte. So che è una festa particolare, la chiamano «ricordo della vittoria». Soprattutto so che è una festa condivisa, da vivere camminando con il papà verso il centro della città, fra cortei, bandiere tricolore e suoni di trombe. A scuola mi hanno spiegato il perché. Il maestro è stato combattente al fronte, e, a guerra finita ha avuto come prima sede d’insegnamento un piccolo paese dell’Istria appena diventata italiana. Ma non c’è bisogno di quella spiegazione. Mio padre mi ha già detto che il suo fratello, maggiore di lui di 10 anni, è stato al fronte, lo zio Mario.

Un altro zio, Renzo, ha annodato gli anni della guerra di Libia con quelli della Grande guerra. Un altro ancora, emigrante in Francia, è stato espulso nel ’14 per l’alleanza dell’Italia con l’Austria, allora entrata in guerra. Il significato di quel giorno, che si chiama semplicemente «il 4 Novembre», è nel cuore e nella memoria di tutti gli adulti di casa, perché lo hanno vissuto. Mio padre, ancora ragazzo in quegli anni, ricorda che il Comune di Bergamo, per i figli e i fratelli dei soldati al fronte istituiva in Città Alta durante il periodo estivo, di vacanza dalla scuola, un soggiorno diurno, con un po’ di scuola, di giochi e il pranzo. I ragazzi stavano sul piccolo spalto nel tratto verso Colle Aperto, dove tuttora si vede la scritta «Scuola all’aperto».

È piacevole l’invito a visitare la Caserma Montelungo, a incontrare i giovani che oggi sono soldati, come loro tanti anni fa. Gli adulti e i ragazzi sono tanti: si guardano i fucili, le bandiere, i cimeli di quella grande caserma di fanteria. Poi in centro, in piazza Vittorio Veneto a guardare la festa di quegli uomini che mi sembravano anziani, ma avevano meno anni di quanti ne abbia io ora. I «ragazzi del ’99» erano poco più che cinquantenni, a pensarci. Sfilano con le bandiere, mio padre mi fa riconoscere le diverse formazioni dal cappello che portano in testa. Sì, è festa condivisa, è l’appartenenza di tutti a una realtà comune. È la gioia di ritrovarsi senza essersi dati appuntamento, perché si sa che è il giorno del ricordo, della gioia per qualcosa di grande che è accaduto, che ha unito perché aveva valore. Nelle parole prevale il ricordo nel quale si prende per buono anche ciò che è stato momento doloroso. Il ricordo dei caduti è quello di persone che hanno dato la vita per la Patria. Quindi sono eroi.

Quando il tempo passa, quando i protagonisti vengono meno e la memoria trasmessa di padre in figlio perde il suo mordente, quando altre memorie si affacciano con intensità perché i loro protagonisti sono vivi e hanno una proposta degna di ricordo, perché è quella che ha scritto una ulteriore pagina della nostra storia, «il 4 Novembre» piano piano si scolora e cade come le foglie che, dopo lo splendore dei colori autunnali, giacciono a terra. La festa cambia nome, diventa genericamente «festa delle forze armate», si sposta alla prima domenica di novembre. Gli archivi si aprono, gli storici mettono in luce le sofferenze dei combattenti, le decimazioni, gli ordini impossibili, le resistenze inutili, la morte che i vili infliggono con i gas, il suicidio dei soldati, i ricoverati nei manicomi. Si riscopre l’intelligenza e la bontà della «Nota di pace» con cui Papa Benedetto XV – Giacomo Della Chiesa - figura esile e fragile nel corpo, grande e lungimirante nello spirito e nella proposta diplomatica, il 1° agosto 1917 propose concrete e realistiche condizioni di pace. Fu inascoltato. «L’inutile strage», come lui l’ha chiamata, non si fermò.

È il 4 novembre 2018, domenica. Dopo la Messa delle 10,30 durante la quale battezzerò Lodovica – una promessa di vita – uscirò come ogni anno, come tanti altri parroci, con tutta la gente per pregare davanti alla grande lapide con i nomi dei duecento ragazzi di Sant’Alessandro in Colonna morti durante la Grande guerra. È scritto sulla lapide «Fortiter pro patria occubuerunt. In Christo resurrecturi». («Sono morti da generosi per la patria. Risorgeranno in Cristo»). Nessuno più fra di noi conosce quei nomi. La festa ancora viva negli anni ’50 si è spenta come loro. L’orrore di quella guerra e di ogni guerra ci è noto. «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio»: è la parola di Gesù che annuncerò oggi, davanti ai duecento nomi di ragazzi caduti, perché possiamo diventare figli di Dio costruendo la pace ogni giorno.

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