Nuovo corso dell’Ue
L’Italia fa l’apripista

La doppia emergenza che ci sta travagliando, quella sanitaria e quella economica, sta profondamente modificando i meccanismi europei che abbiamo conosciuto da Maastricht ad oggi e, più da vicino, dalla crisi del debito pubblico del 2008 ai giorni nostri. Ursula Von der Leyen, che pure divenne presidente della Commissione europea accompagnata da una trista fama di teutonica intransigenza acquisita durante la crisi greca, è invece la prima guida del Palais Berlaymont che deve assumere toni sostanzialmente inediti quando parla della solidarietà europea per i Paesi più colpiti, nel caso specifico il più colpito di tutti, l’Italia.

Che è per combinazione anche il Paese che, dopo la Grecia, ha suscitato le maggiori preoccupazioni e diffidenze per l’entità del suo debito, per la fragilità della sua classe dirigente, per la vacuità di molti suoi progetti riformatori. E così non solo l’Italia fa da apripista - e purtroppo anche da cavia - nella lotta al Coronavirus ma essa diventa anche il paradigma del «nuovo» modo dell’Ue di affrontare le sue emergenze più gravi. È infatti proprio a partire dall’Italia che si è mossa la Commissione a fare ciò che mai fino a ieri sarebbe stato pensabile: la sospensione del Patto di Stabilità che ci accompagna sin dal Trattato di Maastricht del 1992.

Quando Von der Leyen dice: «All’Italia sarà possibile immettere tutto il denaro che è necessario per rispondere alla pandemia», dunque senza badare ai vincoli di bilancio, sembra di assistere ad un mondo rovesciato: mai avevamo ascoltato parole simili, e d’altra parte mai avevamo vissuto una crisi sanitaria così grave. E lo stesso discorso può essere fatto per la Bce: dopo la clamorosa gaffe di Christine Lagarde («Non è nostro compito occuparci dello spread») che aveva provocato un tonfo di Borsa da 85 miliardi in un giorno solo, è stato proprio il «rischio collettivo a partire da quello italiano» a indurre Francoforte a una clamorosa inversione di marcia al punto da sparare il bazooka da 750 miliardi di tre giorni fa.

Ed è sperabile che un simile spirito europeistico influisca, nelle riunioni che si susseguiranno da domani a Bruxelles sino al Consiglio europeo di giovedì, nella discussione sui cosiddetti «Corona-bond» - un’obbligazione comune tra gli Stati dell’Eurozona per combattere il Coronavirus - che potrebbero finalmente vedere la luce se francesi, italiani, spagnoli, portoghesi e parte della Commissione riusciranno a superare il muro eretto dagli olandesi per conto dei tedeschi. Stesso discorso sull’utilizzo del Mes (il Meccanismo europeo di stabilità, il figlio del Fondo Salva Stati della crisi del 2008) e della sua dotazione miliardaria senza che siano poste le condizioni da garrota che finora lo hanno caratterizzato quando si è trattato di «aiutare» uno Stato in difficoltà.

Dunque è questo il quadro europeo in profonda trasformazione che è di fronte alla politica di tutti i paesi e dell’Italia in particolare. Viene da dire: ci voleva un trauma profondo come una pandemia per smuovere l’Unione europea dei burocrati e degli egoismi. Però, se tutto si muove intorno a noi, non potrà certo essere la politica italiana il problema. È questa la preoccupazione che muove in queste settimane l’azione del Capo dello Stato che da dietro le quinte spinge per una sempre maggiore coesione tra i partiti in questa fase così difficile della Storia nazionale: per quanto questa classe dirigente mostri i propri limiti, è chiamata ad uno sforzo straordinario e unitario che deve agire dentro il governo, nel rapporto tra i partiti di maggioranza e di opposizione, nei vari livelli istituzionali dal centro alle regioni ai comuni. Uno sforzo che deve saper guardare avanti, quando la pandemia sarà un ricordo ma le sue conseguenza sull’economia un difficile presente.

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