Ora ripensiamo
il nostro futuro

Come è giusto e comprensibile, fin da ora si sta pensando al dopo, a come prepararsi al dopo. Il dopo che ci preoccupa è quasi esclusivamente quello economico: da più parti si insiste sulla necessità di dover programmare fin da ora le iniziative per far ripartire al più presto l’economia. Eppure mi sembra che ci sia un altro dopo che dovrebbe altrettanto preoccuparci sollecitando, fin da ora, una riflessione ampia e approfondita. Durante i giorni più neri dell’epidemia una giornalista ha affermato: «Ci sentiamo tutti soli, impauriti, vulnerabili, fragili»; come non essere d’accordo? Eppure solo qualche settimana prima, ad esclusione di alcune voci profetiche, non si sentiva parlare d’altro che di «eccellenza», di «grinta», di «assoluta determinazione», della necessità di «arrivare prima degli altri», di essere «i migliori», di «non arrendersi mai», di «non fermarsi di fronte ai fallimenti», ecc.

Il nostro «primo mondo» si nutre di questa volontà di potenza all’interno della quale si confonde costantemente il «compimento» con il «successo», il «lavoro» con la «professione», la «determinazione» con l’«ostinazione», e parallelamente la «mitezza» con la «debolezza», la «pazienza» con l’«esitazione», ecc., ecc.; insomma, dobbiamo essere ad ogni costo dei «vincenti», degli chef raffinati, dei creativi innovativi, degli influencer riconosciuti, dei ricercatori affermati, dei cantanti rinomati, poiché se non si è «tutto» allora si è «niente». Altro che «fragili» e «vulnerabili», ci hanno riempito la testa e ce la siamo fatta allegramente riempire, riempiendola soprattutto ai giovani, con il delirante dovere di essere «forti», di essere «vincenti», perché altrimenti non potremmo essere altro che dei perdenti, degli esseri mediocri.

L’«ideologia dell’eccellenza», tipica della cultura del nostro «primo mondo», genera così schiere di paranoici che, giudicando la propria vita un fallimento (diciamo la verità, chi può definirsi «eccellente» o «il migliore»? Ma se non si è «il primo» allora si è come «l’ultimo», così si continua a ripetere), non trovano di meglio che individuare nelle circostanze sfavorevoli della vita e nella malignità degli altri la vera e unica causa di quello che percepiscono essere il loro «infelice destino». Questo aspetto è sottolineato con lucidità da Žižek: «Ogni contatto con un altro essere umano viene esperito come una minaccia potenziale - se l’altro fuma, se mi getta uno sguardo desideroso, egli già mi ferisce; questa logica della vittimizzazione viene oggi universalizzata, arrivando ben al di là dei classici casi di molestie sessuali e razziste. [...] Questa idea del soggetto come vittima irresponsabile comprende l’estrema prospettiva narcisistica dalla quale ogni incontro con l’Altro appare come una potenziale minaccia al precario equilibrio del soggetto; in quanto tale, ciò non è l’opposto, ma piuttosto il supplemento intrinseco del libero soggetto liberale: nella forma predominante di individualismo di oggi, l’affermazione auto-centrata del soggetto psicologico paradossalmente coincide con la percezione di se stessi come vittime delle circostanze» («Credere», Meltemi 2005, p. 179).

L’epidemia che ci ha colpito potrebbe aiutarci ad uscire da questo delirio, o perlomeno potrebbe aiutarci a riconoscere il carattere patologico di questo modo di vivere e pensare. In un precedente articolo, citando Camus (La peste), ho sottolineato la necessità, in questa situazione, di «ammettere lo scandalo» e di «restare», di «cominciare a camminare in avanti, nelle tenebre, un po’ alla cieca, e tentare di fare il bene», ma anche di evitare di «abituarsi alla disperazione» e imparare a «rispettare il limite», di smascherare la menzogna dell’«urgenza» e riconoscere il valore della «pazienza». Ma tutto questo non si produce automaticamente, come se bastasse il semplice volerlo realizzare per vederlo anche realizzato; ogni volta l’uomo è chiamato a decidere in merito ad ognuno dei compiti sottolineati, ed una simile decisione, se e quando è tale, ha sempre un certo costo, visto che richiede tempo, attenzione, riflessione, umiltà, volontà e responsabilità.

Non c’è alcuna garanzia, alcuna certezza che un fatto accadutoci si trasformi di per sé in un evento significativo e fecondo per la nostra esperienza: non basta infatti una sensazione, fosse anche una forte sensazione, come ad esempio quella che proviene da un’epidemia con tutta la sua sofferenza e suoi lutti, per generare un’esperienza, la quale esige, lo ripeto, anche il desiderio, l’attenzione, la riflessione, la volontà, l’umiltà ed il giudizio. Qualcosa può accadere nella nostra vita senza tuttavia lasciare alcuna traccia nella nostra esperienza: è accaduto ma non ha cambiato nulla, non ci ha cambiato in nulla. Ecco, almeno in questo la sciagura che ci ha travolto potrebbe rivelarsi utile: essa potrebbe sollecitarci a riconsiderare il nostro modo di vivere e di pensare, a prendere finalmente sul serio ciò che è serio, come sottolineava qualche giorno fa Papa Francesco. È questo l’altro «dopo» che ci attende, a condizione, però, che a nostra volta lo si attenda e desideri, poiché niente e nessuno potrà mai obbligare un essere libero a desiderare, a riflettere e così, in ultima istanza, a cambiare.

Personalmente non sono affatto sicuro che finita l’emergenza non si ritorni immediatamente a parlare, con immutato entusiasmo e accresciuto cinismo, di «successo», di «primati», di «leader» e in particolare dei «master» in grado di insegnarci a come diventarlo. Inoltre mi sembra di scorgere all’orizzonte un altro rischio che sarebbe bene non sottovalutare: mi pare, infatti, che a fianco all’idolo dell’«eccellenza» si stia già costruendo l’idolo della «sicurezza». Non vorrei che in nome del nostro «benessere fisico» alla fine ci si consegni ad una «metafisica della sicurezza» che non potrà far altro, ancora una volta, che «sorvegliare e punire» (Foucault).

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