Pablito, mito signorile
nell’Italia in crescita

Per noi «ragazzi» del baby boom la morte di Paolo Rossi non è soltanto la scomparsa prematura di un campione del mondo che aveva conservato umiltà e gentilezza anche dopo aver appeso le numerose maglie (e che maglie!) al chiodo. Per noi degli anni ’60 quella di Paolo Rossi è la scomparsa di una parte di noi stessi, di un mito che ha infiammato la nostra indimenticabile estate del Mundial. Chiedete a chiunque sia nato prima del 1975 e dintorni (di quelli insomma che avevano l’età della ragione), tutti si ricorderanno dove erano e cosa stavano facendo (quasi sempre stavano urlando di gioia) durante Italia-Brasile del 5 luglio 1982 in quella collezione di attimi, di brividi dell’anima che furono i tre gol di Pablito, quel lampo che pareva spuntare dal nulla come un dioscuro in quella selva di maglie gialle dorate per incornare la palla e buttarla in rete.

Provate a chiedervi perché la Nazionale campione del mondo del 2006 è un meraviglioso ricordo e invece la ciurma del friulano Enzo Bearzot è parte di noi, almeno noi «ragazzi» degli anni ’60. La risposta è semplice: perché la Nazionale di Lippi, Cannavaro e Buffon è storia, la ciurma che conquistò il Mundial di Spagna è mito, è composta di eroi, di brutti anatroccoli che si fecero cigni fino ad alzare la coppa al Bernabeu sotto gli occhi del presidente Sandro Pertini. Non è un caso che l’aggettivo legato a quel mondiale è «magico». Ricordo bene le polemiche, la squadra in silenzio stampa, gli articoli dell’epoca prima della partita dopo un fiacco girone: «Speriamo almeno che escano dalla sconfitta sul campo a testa alta, con un minimo di dignità», aveva scritto il grande articolista del giornalone. E invece entrarono nello stadio e uscirono con l’alloro, prima con l’Argentina di Maradona e poi col grande Brasile.

E a proposito di mito, mi sono sempre chiesto se il fatto che la figlia di Bearzot, Cinzia, sia divenuta una delle più quotate e prestigiose studiose di storia della Grecia antica sia solo un caso, in tutta questa faccenda. Avrà deciso di dedicare la sua vita a Tucidide, Omero e Plutarco dopo aver visto rientrare suo padre a casa la domenica, reduce dalle partite come Agamennone dalla conquista di Troia? L’eroe degli eroi era proprio lui, Pablito, quell’Achille magrolino, timido e discreto che non sbagliò il colpo fatale, veloce come un furetto, con quel cognome così italiano. Il signor Rossi della Nazionale, il ragazzo magro come un fil di ferro, dai ginocchi di cristallo, partito dal Lanerossi Vicenza (alzi la mano chi non possedeva quella figurina), destinato alla Juve del Trap, simbolo di un Paese di signor Rossi come lui e di quelli che volevano essere come lui, quelli che sanno sorprenderti, quelli che non ti aspetti e che invece sono i migliori. Nulla potè sporcare quell’immagine, nemmeno lo scandalo del calcio-scommesse.

Dicono che una vittoria al Mundial spinge la nazione al successo. Non posseggo dati scientifici, solo impressionistici, ma per il nostro Paese fu proprio così. La gioia incontenibile di quei tre gol si fece arrembante ripresa economica. Il signor Paolo Rossi (signore discreto del calcio) divenne il mito di un’Italia che viveva ancora gli anni bui del terrorismo, scossa dai referendum e dall’attentato a Giovanni Paolo II, reduce da un decennio di conquiste sociali, ma che avrebbe lavorato, lavorato, lavorato per divenire la 6ª potenza industriale del mondo, andando incontro agli anni ’90, nell’apogeo della Prima Repubblica con l’endiadi dei rivali di Craxi e De Mita, al crollo del Muro di Berlino e alla fine del comunismo, alla marcia dei 40 mila, agli anni ruggenti dell’economia con la crescita impetuosa dei comparti della moda e dell’edilizia. E ancora, alla costruzione del sistema monetario europeo, al rigurgito di guerra fredda tra Gorbaciov e Reagan. Gli americani avevano Rocky e Rambo. Noi avevamo Pablito.

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