Papa Francesco in Iraq
Le chiavi della pace
in una terra martoriata

L’Iraq, dove il Papa arriva domani mattina, è una terra di scontro di attori estremi, da decenni in ostaggio di alleanze geopolitiche mediorientali e globali e di allineamenti strategici che non tagliano mai alcun traguardo e continuano a rimescolarsi e modellarsi lungo linee di faglia settarie etno-religiose. È una terra di instabilità totale dove lunghi anni di conflitti sanguinosi sono stati aggravati da miti ingiustificati sotto il profilo religioso e del diritto internazionale che li hanno preceduti e accompagnati. È la terra dei dopoguerra infiniti e dei martiri di cause contrapposte e mette in scena perfettamente e da anni ogni fallimento delle leadership locali e dalla leadership globale.

Non c’è quasi nulla di normale in Iraq, tra razzi, dei buoni e dei cattivi, che continuano a colpire strade e città, proteste sempre più massicce di giovani senza futuro in una sorta di primavera araba sbocciata in ritardo contro corruzione e mancanza di sicurezza, e uno Stato che evapora, incapace di assicurare anche livelli minimi di vita ai suoi cittadini.

È il viaggio più difficile di Bergoglio dei 32 che ha finora intrapreso perché in Iraq tutta la tormentata storia mediorientale e l’attualità geopolitica dell’impasse di quei popoli di riconoscersi finalmente fratelli è rappresentata nella sua tragica perfezione. Osserva il professor Antoine Courban, politologo dell’Università dei Gesuiti Saint Joseph di Beirut che «le chiavi per la pace sono in Mesopotamia», dove «le cartine spirituali e quelle geopolitiche si sovrappongono, hanno gli stessi perimetri e indicano una sola soluzione ai problemi: cambiare narrazioni e strategie e riconoscersi cittadini e fratelli».

È questo il motivo per cui il viaggio di Bergoglio ha un livello di complessità elevatissimo e affatto consueto. Dall’Iraq è partito Abramo e mai un Papa era andato ad Ur ai piedi dei gradini altissimi dello «ziqqurat» al centro della storia. A Karol Wojtyla venne impedito dai figli delle religioni nate sulla strada di Ur. Ecco perché il viaggio di Francesco è simbolico e già il gesto di andare è sufficiente per indicarne importanza, forza e autorevolezza. Bergoglio è l’unico leader globale che in tempo di pandemia ha deciso di alzare la posta e occuparsi degli opposti antagonismi che in Iraq connotano il dramma dell’intera regione mediorientale e più in generale raffigurano l’emblema della sciagura globale, dove il dialogo è sparito, sbaragliato dall’individualismo e dal nuovo imperialismo targato Covid. Va ad abbracciare i cristiani iracheni ridotti a poche decine di migliaia, popolo umiliato e cacciato dalla propria terra, insieme a tanti altri discendenti di Abramo da quelle parti. Non pronuncerà tanti discorsi, ma riserverà sorprese, come una sorpresa è il viaggio intero.

Andrà a trovare a casa sua nella città santa per gli sciiti Najaf il grande Ayatollah Al Sistani, noto per la sua ritrosia e selettività degli incontri. Per il Papa la visita è un messaggio. Ma lo è anche per il Grande Ayatollah, che incontra l’uomo che ha firmato il Messaggio di Abu Dhabi, pensato e sottoscritto finora da musulmani sunniti. Non si sa se anche Al Sistani lo firmerà. Ma potrebbe essere marginale, perché ciò che conta è l’incontro, sufficiente a smontare l’elemento identitario dello scontro nella comunità musulmana tra sciiti e sunniti causato da uno scisma che, nonostante risalga a più di quattordici secoli fa, continua a minacciare la stabilità di molti Stati in Medio Oriente, perché viene sfruttato a beneficio e sostegno della propria potenza da diversi leader e utilizzato come elemento di analisi di inesauribile instabilità e conflitto da parte di una comunità internazionale intenta perennemente a schivare ogni responsabilità.

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