Piccole crepe
nel dominio leghista

Non è tutto oro quel che luccica in casa della Lega, o quanto meno c’è qualche indizio in tal senso. Il partito di Salvini, nelle intenzioni di voto, mantiene sempre percentuali bulgare, raddoppia rispetto al voto del 4 marzo, viaggia fra il 30 e il 40% al Nord, cresce al Centro e al Sud, ma comincia a perdere qualche pezzo fra le mura domestiche. Un sondaggio riservato, pubblicato ieri dal «Corriere», parla infatti di una flessione di 8 punti e mezzo nel Nordest, la terra del richiamo della foresta e lo zoccolo duro del consenso leghista, e di 3 nel Nordovest. Diserzioni forse da assestamento comunque significative, destinate ad essere parcheggiate nell’area dell’astensione o nella maggioranza silenziosa degli indecisi. Paradosso vuole che l’ambiguità della Lega a due velocità (quella nazionalsovranista in fase espansiva e quella padana rimasta in servizio ma senza le fanfare) guadagni in trasferta e lasci sul terreno qualcosa in casa.
L’arretramento non è tale da togliere il sonno a Salvini che, impegnato com’è a ridefinire il senso comune dell’italiano normale, rende satura la scena politica nella convinzione di una propria invulnerabilità mediatica.

E mentre il compagno d’avventura, Di Maio, arranca dietro il capo leghista faticando a stargli al passo. Tuttavia quei numeri che mancano all’appello confermano, come sa l’ex astro nascente Renzi, che il consenso non è dato una volta per tutte. Anche il momento magico ha il suo lato oscuro ed è capace di tradire.

Il mancato allineamento del valore aggiunto del Nordest all’avanzata gagliarda della Lega, in un’Italia dove tira aria di recessione, ribadisce il crescente malessere fra i ceti produttivi (piccoli e medi industriali, partite Iva, artigiani, commercianti) per le non pervenute politiche rivolte alla crescita. Un disagio, se non imbarazzo, esteso anche a Confindustria, anche se c’è chi si aspetterebbe lamentele più forti da parte degli industriali che si muovono a più voci. Le proteste delle scorse settimane e la piazza torinese delle «madamin» segnalano l’insoddisfazione dei cittadini per l’andamento economico, mentre il partito del Pil, quello delle infrastrutture e della società aperta europea, si configura oggi, insieme con lo spread, come una forza extraparlamentare, qualcosa che assomiglia ad un’opposizione sociale. In assenza peraltro di un Pd non in grado di essere percepito come una realtà alternativa, specie su un terreno tradizionalmente ostile come il Nordest. I produttori che hanno fatto le fortune della Lega chiedevano la flat tax e si ritrovano con il reddito di cittadinanza e con le pensioni a quota 100.

L’ulteriore taglio di risorse sui due provvedimenti-bandiera amplifica i passi indietro del governo. Se l’esecutivo del cambiamento ha tentato di vendere lo smacco in Europa come un successo, sarà difficile per la Lega spiegare perché ha puntato sui pensionati e sui sussidi di Stato e non sulle tradizionali parole d’ordine del «sindacato del territorio»: fisco leggero, grandi opere, autonomia tuttora in alto mare in cerca di un incerto rilancio. Il Nordest si chiede cosa stia guadagnando dall’alleanza «innaturale» con i teorici della decrescita felice, ma fin qui ha visto in Salvini l’uomo in grado di riequilibrare in chiave produttivista il piccolo sovranismo autarchico del governo.

Salvo riconoscere tardivamente l’incapacità, o la non volontà dello stato maggiore leghista, di risolvere i problemi creati dai 5Stelle. Salvini, a dispetto delle apparenze vincenti, è nella trappola del contratto con Di Maio: non può stracciarlo, al di là di ogni evidenza negativa sul proprio elettorato. Almeno fino al voto di maggio per l’Europa. Ma il piatto piange.

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