Pochi bimbi, all’Italia
non bastano piccoli passi

Mai così pochi bambini. Se il 2020 se ne va portandoci via tanti anziani, l’anno che lo ha preceduto ha silenziosamente conseguito un altro triste record: come ha reso noto ieri l’Istat, nel suo rapporto «Natalità e fecondità», siamo di fronte al più basso livello di ricambio naturale mai espresso dal Paese dal 1918. Nel 2019 sono stati 420.084 i nuovi nati, quasi 20 mila in meno rispetto all’anno precedente e addirittura oltre 156 mila in meno nel confronto con il 2008. Per il settimo anno consecutivo, nel 2019 si è registrato un nuovo superamento, al ribasso, della denatalità. È una spirale che sembra quasi impossibile invertire e che certamente registrerà una nuova accelerazione quando si conosceranno i dati di un anno dominato dalla paura come questo 2020. Per ora l’Istat ha dato solo un’anteprima: la denatalità prosegue nel 2020; secondo i dati provvisori riferiti al periodo gennaio-agosto 2020, le nascite sono già oltre 6.400 in meno rispetto allo stesso periodo del 2019. Anche senza tener conto degli effetti della pandemia di Covid, che si potranno osservare a partire da dicembre 2020, ci si può attendere una riduzione ulteriore delle nascite almeno di 10 mila unità.

Non c’è purtroppo niente di nuovo né di imprevisto nei dati resi noti ieri dall’Istat. Così, scrivendone, sembra di ripetere quanto si è scritto e letto negli anni passati, con la sola differenza che i numeri si sono ulteriormente assottigliati. Le tendenze sono quelle che da troppo tempo non conoscono minimi segnali di inversione: a diminuire sono soprattutto i nati da genitori entrambi italiani: 327.724 nel 2019, oltre 152 mila in meno rispetto al 2008. Il numero medio di figli per donna continua a scendere: 1,27 per il complesso delle donne residenti (era di 1,46 nel 2010). Il risultato è che l’Italia si ritrova con il tasso di natalità - cioè il rapporto tra il numero dei nati vivi e il totale della popolazione - più basso di tutta l’Unione europea: 7,3 nati vivi ogni mille persone. Penultima c’è la Spagna con 7,9 nati vivi ogni mille persone e terzultima la Grecia, con 8,1 nati vivi ogni mille persone.

Le ragioni di tutto questo sono anche quelle più che risapute. La denatalità è un fenomeno dovuto a fattori «strutturali» per via delle modificazioni della popolazione femminile in età feconda, convenzionalmente fissata tra 15 e 49 anni. In questa fascia di popolazione le donne italiane sono sempre meno numerose: le cosiddette baby-boomers (ovvero le donne nate tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta) stanno uscendo dalla fase riproduttiva (o si stanno avviando a concluderla); dall’altro, le generazioni più giovani sono sempre meno numericamente consistenti. Anche l’apporto delle famiglie immigrate che ha contribuito a tenere in positivo il saldo nei primi anni 2000, ora si sta affievolendo: crisi e diminuzione dei flussi migratori rendevano facilmente prevedibile questo calo.

Se dunque le ragioni sono purtroppo chiare ci si chiede cosa debba accadere perché nel prossimo futuro si possa aprire qualche spiraglio. È una domanda che porta inevitabilmente a mettere in relazione questi dati con la più importante scommessa che il nostro Paese si trova ad affrontare: il Recovery Fund, ovvero le misure che l’Europa ha messo in atto per uscire dalla crisi causa Covid. Quel piano ha un nome che è difficile non connettere con questi dati: «Next generation Eu». Già, ma che prossima generazione nel nostro Paese? Nelle «Linee guida per la definizione del Piano nazionale», presentate in Parlamento a settembre scorso, uno dei 13 punti fissa esplicitamente l’obiettivo: «Promuovere una ripresa del tasso di natalità e della crescita demografica». Ma di contrasto alla denatalità si parla anche nella sezione fiscale dove si dice che «il superamento di questa situazione di criticità è una questione di interesse nazionale di prioritaria rilevanza». Il Family act approvato l’11 giugno scorso e fortemente voluto dal Forum delle associazioni famigliari è un primo segnale che va in questa direzione. Entrerà a pieno regime nel 2022 e prevede tra le misure anche l’assegno unico, un contributo che viene assegnato a famiglie con uno o più figli a carico che verrà erogato fino ai 21 anni di età. È un primo piccolo passo, per recuperare l’enorme ritardi che l’Italia ha accumulato in termini di politiche famigliari. Ma è davvero difficile pensare di arginare l’inverno demografico se non si interviene proprio da qui, dal sostegno alle famiglie che ci sono e a quelle che verranno.

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