Politica dei like
lasci spazio alla realtà

Nel Paese di Machiavelli, la politica è tattica, ma almeno nei momenti di crisi bisognerebbe chiedere al sistema, tutto intero, di prospettare una linea strategica. Non solo cercare ogni giorno il nemico da demonizzare, ma dire quale è l’orizzonte proposto. L’ultima svolta tattica è di un anno fa, quando Renzi apri clamorosamente le porte del governo PD-5Stelle. Lo scopo era legato all’attualità, evitare che attraverso elezioni anticipate, Salvini ottenesse i «pieni poteri» dati per scontati al Papeete. Là siamo ancora. Il «pericolo» Salvini è stato smorzato, ma sarebbe ora di capire in nome di cosa. Europa sì o no, stato o mercato, Trump e Putin o Merkel e Macron? A Di Maio piace la Cina e pazienza per Hong Kong, a Salvini e Meloni continua a piacere Orban, che il Parlamento lo ha ibernato davvero, senza referendum.

C’è a sinistra un pur modesto dibattito, aperto dal tessitore del PD, Goffredo Bettini, vero dominus della segreteria, mentre nel centrodestra il problema è tutto interno alla contesa tra Meloni in ascesa e Salvini in discesa. Forza Italia sta a guardare con la sola speranza di contare portando voti, pochi ma decisivi, per una maggioranza a destra. Intanto però perde pezzi importanti: Paolo Romani se ne è andato. Mara Carfagna dialoga con il centro, restia a reggere il sacco nazional populista. Berlusconi fa più politica oggi di quando era leader con Salvini al 4%. Un minimo pensiero strategico lo fa intravedere, ma ad intermittenza. Vige ancora il principio che il comando è del partito più votato, oggi Salvini, domani chissà. Ma strategia significa sacrificare qualcosa in nome di un obiettivo che valga la pena.

Quanto al centrosinistra, il fascino della strategia attira di più, ma per ora si risolve nel tentativo di trasformare un caso quasi fortuito – il connubio tra il partito «di Bibbiano» e quello dei gilet gialli – in un percorso solido. Bettini ha costruito un modellino teorico con il PD perno di una coalizione duratura con i 5 Stelle, la sinistra e i riformatori (confessione freudiana sulla vocazione non più riformista del suo partito?). E’ un’idea che piace a Franceschini e molto meno a Guerini, i due capi interni a cui fanno riferimento le truppe dem più numerose (Bettini non ha truppe, ma controlla la politica romana). Ma che strategia è, quale orizzonte potrebbe aprire una sinistra che puntasse a ripetere una riedizione DS, come se nel PD attuale non ci fosse gente come Bonaccini, Gori, Sala, Del Bono, Nardella, che hanno vinto elezioni locali con un seguito che certo non si riconosce nella nostalgia postcomunista? E che senso hanno, nel 2020, statalismo, nazionalizzazioni e assistenzialismo, unico tratto d’unione con i 5Stelle? Partito quest’ultimo in declino, che si aggrappa alla Raggi e all’antipolitica un po’ retrò del taglio dei parlamentari?

L’Italia ha bisogno di un sistema, a destra e a sinistra, che ci dica dove siamo nell’Europa del dopo Brexit e nel mondo in cui negli Usa tra meno di 100 giorni potrebbe tramontare l’illusione della politica protezionistica, unilaterale, egoista. L’ondata populista dell’ultimo decennio è stata – essa sì – strategica, e ha offerto una prospettiva, ma si è rivelata fallace. Quanto durerà ancora, aggredita da una pandemia che è stata ed è un bagno di realismo? Il populismo aveva teorizzato un mondo senza politica e senza scienza. Entrambe, con i loro difetti, sono invece indispensabili. Il populismo aveva schernito l’Europa, ma questa ha saputo reagire. I britannici ne sono usciti proprio mentre ne avrebbero avuto più bisogno. La realtà delle cose è più forte.

Resta il problema di passare dalla tattica, buona per il talk show di stasera, alla capacità di piegare la tattica ad una visione, una strategia. Faticoso, pochi like in vista, ma necessario.

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