Politica e cultura
Il legame necessario

Nell’Atene del IV secolo a. C., culla e fonte della democrazia, Aristotele definiva la politica l’arte e la scienza del governare, sostenendo che governati e governanti dovessero essere accomunati dalla stessa cultura. A sua volta Platone, nel suo capolavoro dialogico «La Repubblica», affermava la necessità di un deciso ruolo politico per la cultura, auspicando «un governo dei filosofi che, in quanto unici a possedere il sapere, avrebbero retto lo Stato con leggi razionali e giuste volte al bene comune e alla convivenza pacifica tra i propri membri». La cultura greca non distingueva lo Stato dalla società e questo generava comportamenti virtuosi collettivi.

Ogni cambiamento pubblico, per produrre effetti positivi, necessita di un coinvolgimento consapevole dei cittadini attraverso un legame continuo, radicato e inestricabile, tra politica e cultura. Nel 1955 l’indimenticato filosofo Norberto Bobbio, senatore a vita della Repubblica, nel suo libro «Cultura e politica» scriveva: «Quando il procedimento dogmatico è assunto dal potere politico come mezzo di Governo, la resistenza contro il dogmatismo e la difesa dello spirito critico diventano per l’uomo di cultura un dovere, oltre che morale, politico che rientra perfettamente nel concetto di una politica della cultura».

Più recentemente Gustavo Zagrebelsky, già presidente della Corte Costituzionale, nel suo scritto «Fondata sulla cultura. Arte, scienza e Costituzione» (2014) si chiede come sia possibile una vita comune, cioè una società tra persone sconosciute e ritiene che tutte le società sarebbero destinate a fallire se non tenute insieme da una forza indipendente da politica ed economia, com’è la cultura. In particolare, Zagrebelsky evidenzia che senza idee non vi è cultura, senza cultura non vi è società e senza libertà di cultura non vi è libertà della società. Lamberto Maffei, vice presidente dell’Accademia nazionale dei Lincei, nel suo testo «Elogio della ribellione», ricordando la visione della politica auspicata da Platone afferma: «Oggi, però, un Platone al passo con i tempi scriverebbe che i governi devono essere formati principalmente da persone qualunque o anche ignoranti, nel senso di prive di conoscenze, purché abbiano esperienze di partito, siano abili nella parola, come suono più che come concetto, loquaci, un tantino logorroici, di bella presenza e che per tutte queste proprietà siano capaci di forare lo schermo o twittare con aggressiva tempestività». Il Platone ironicamente e ancor più causticamente tratteggiato da Mattei ci descrive quale sia la nostra attuale involuzione sociopolitica, dopo anni di assenza di ogni legame tra politica e cultura ed in presenza di una sempre più accentuata separazione tra governati e governanti.

Senza una profonda compartecipazione culturale che preceda e mitighi le tante, sempre più confuse e strampalate istanze partitiche, l’evidente crisi della democrazia rappresentativa del nostro Paese da grottesca rischia di farsi davvero irreversibile. Non serve il ricorso a illusorie istanze di democrazia diretta, ripetutamente condannate dalla storia, né fare demagogicamente riferimento al popolo, immaginando che possa essere il principale artefice di ogni decisione politica. Occorre programmare con urgenza e cura un vasto processo formativo, rivolto soprattutto alle nuove generazioni. A scuola e università devono essere dedicati magari un po’ meno intenti programmatici ad effetto durante comizi e orazioni parlamentari, e molta più attenzione concreta, molta più progettualità intelligente, molta più modernità avveduta e consapevole. Una traccia etica che insegni a distinguere il bello dall’effimero; che accompagni i giovani a scoprire in autonomia ciò che è conveniente per tutti e, dunque, è giusto, da ciò che è solo conveniente per sé e per la propria cricca.

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