Politici veri
per governare

Circa 100 anni fa, il 16 febbraio del 1922, Luigi Einaudi scriveva sul Corriere della Sera una lettera al direttore sulla competenza richiesta a chi ha un ruolo nelle istituzioni. Usciti tutti un po’ tutti frastornati dalla giostra delle elezioni presidenziali, che hanno mostrato cosa si intende con il «non» saper far politica, le sue riflessioni ci aiutano a capire. «Al politico – scriveva Einaudi, con la sua prosa inimitabile – è ordinato di essere perito precisamente nel mestiere suo, che è la politica». E osservava, sui politici dell’epoca: «al peccato veniale di nulla sapere della tecnica degli istituti cui sono preposti, aggiungono per lo più il mortalissimo peccato di essere ignoranti eziandio della speciale loro materia, che è quella politica». E concludeva, se non si fosse capito: «La preparazione che i politici italiani hanno all’alto ufficio è davvero spesso miseranda».

Non vi viene in mente qualcosa di visto un secolo dopo? Il veleno ancora circolante del malinteso «uno vale uno» ha appena prodotto quella sfilata di mister e miss Italia senza capo né coda, come le selezioni di un reality, all’insegna dell’«avanti un altro, meglio se un’altra», umiliante per persone di grande valore professionale. Ma non è una passerella tv fare il presidente, o il ministro, tanto più il parlamentare, mestiere difficilissimo, quasi come il sindaco o il segretario di partito, i più difficili in assoluto, come si è visto per la vacuità di certo kingmaker del Quirinale.

«A che pro la fantasmagoria di incompetenti, i quali giungono al potere senza nessuna preparazione?». Ma qual è la preparazione a cui si riferiva Einaudi? Questo è il punto decisivo, su cui riflettere prima di liquidare con sufficienza i «professionisti della politica». In politica non si improvvisa: l’addestramento è frutto di una lunga crescita, di un’esperienza fatta salendo con serietà i gradini del «cursus honorum». L’economista piemontese non poteva certo immaginare che si potesse arrivare agli altissimi gradi delle istituzioni dal nulla, come oggi accade. La sua epoca era ancora elitaria e solo da 10 anni, grazie a Giolitti, c’era il suffragio universale, ahinoi solo maschile.

La sua polemica non era quindi - non poteva neanche immaginarlo - contro il dilettantismo al potere e il passaggio diretto dalle discoteche al ministero della Giustizia. Einaudi se la prendeva con i «benpensanti» che ritenevano che a guidare l’esercito dovesse andare un generale, alla sanità un medico, alle scuole un professore eccetera. «Tutti costoro, singolarmente periti nelle loro arti specifiche, non perciò sono competenti in politica… Governare vuol dire governare uomini, indirizzandone gli sforzi ad un fine comune e collettivo. Non basta un buon teologo per fare un buon Papa».

È un punto che merita riflessione, anch’esso di grande attualità, visto che abbiamo un tecnico alla guida del Governo. E infatti di Mario Draghi tanti si affrettano a sottolineare proprio la capacità politica. Uno che ha domato i falchi tedeschi e nordici, che ha tenuto duro sull’euro in pieno populismo, non può che avere capacità politica. Anche se, Draghi per primo, si è accorto in questi ultimi mesi, che un conto è giocare a scacchi con il presidente della Bundesbank e un conto con il no euro Paragone, un conto ragionare di vaccini con i dr. Fauci e un conto con i no vax da talk show. Un conto discutere con Mario Monti e un conto con l’ex ministro Toninelli. Infinitamente più complicato, intendiamo.

Eppure, in democrazia è giusto che si mettano tutti a confronto. Il più grande sindacalista italiano, Giuseppe Di Vittorio, era un autodidatta (che poi vuol dire fatica, non like sui social). Ha dunque ragione Einaudi quando ricorda che ci vogliono uomini preparati alla politica e - aggiungiamo noi - elettori che li sappiano riconoscere. Vero è - chiudeva cosi, amaramente, quel suo scritto - che tanti «avevan veduto la furbizia portar certuni su su, fino ai sommi gradi. Perché faticar più di costoro?».

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