Quando lo Stato
è soffocante

Dopo l’ondata di privatizzazioni degli anni Novanta, si è gradualmente manifestata una presenza sempre maggiore dello Stato nell’economia del nostro paese. Nel 2000, con la liquidazione dell’Iri fondato nel 1933, lo Stato deteneva ancora il controllo di asset strategici quali: le società energetiche Eni ed Enel; quelle della difesa come Leonardo; le casseforti del risparmio privato come la Cassa depositi e prestiti (Cdp) e le Poste; i trasporti con le Ferrovie; le telecomunicazio-ni con la Tv pubblica. Negli anni successivi, oltre al mantenimento di tali quote partecipative, ne sono state assunte ulteriori. Questa tendenza si è accentuata negli ultimi tempi a seguito della crisi pandemica, che ha indotto l’Unione europea a concedere deroghe al precedente ferreo divieto dei salvataggi di Stato.

Ciò ha reso possibile gli interventi del Tesoro nel capitale di Alitalia e del Monte dei Paschi di Siena, di Cdp nel capitale di Autostrade e di Borsa Italiana, così come di Invitalia nel capitale dell’ex Ilva di Taranto. Oggi le imprese controllate dal Tesoro, da Cdp e da Invitalia sono ben trentadue. Il loro fatturato alla fine del 2019 era di 241,4 miliardi di euro, gli utili ammontavano a 26,8 miliardi, gli investimenti complessivi a circa 35 miliardi e gli occupati erano oltre 470 mila. Le undici società quotate comprese nel portafoglio dello Stato rappresentavano il 30% della capitalizzazione di B orsa, quota destinata a crescere per le tante iniziative intraprese nel corso del 2020 da Cdp, che va così gradualmente assumendo la fisionomia di una nuova Iri.

In ogni economia di mercato, quando si manifestano pesanti situazioni di crisi l’intervento dello Stato si rende indispensabile per evitare la chiusura di aziende che, pur avendo potenzialità in termini di know-how, necessitano di un sostegno finanziario di breve o medio periodo che consenta loro il rilancio dell’attività e il mantenimento dei livelli occupazionali. Sarebbe tuttavia quanto mai auspicabile che la presenza dello Stato nel capitale di queste imprese durasse il tempo necessario per garantire alle stesse l’avvio di una gestione autonoma dal punto di vista finanziario ed economico. Questo è, del resto, l’indirizzo più volte ribadito dall’Europa allo scopo di evitare che una presenza pubblica prolungata nella gestione di alcune aziende comprometta il regolare svolgimento della concorrenza.

Un’importante conferma di ciò ci giunge dall’analisi condotta da «Heritage Foundation», autorevole Istituto di ricerca statunitense che periodicamente monitora il «grado di libertà» di 102 Stati al mondo attraverso vari indicatori, tra i quali grande rilievo assume il peso dello Stato in economia. Nel 2018 l’Italia si è collocata all’80° posto, con 62,20 punti su 100, rientrando così tra le economie «moderatamente libere» nel cui ambito rientrano anche Francia e Spagna. Tra le economie «ampiamente libere» si sono collocate la Germania con 73,50 punti, la Gran Bretagna con 79,90 punti e gli Usa con 76,80 punti. Rientrano infine nelle «economie libere», con più di 90 punti, solo sei Paesi: Hong Kong, Singapore, Nuova Zelanda, Svizzera, Australia e Irlanda. Ciò che emerge è dunque l’esistenza di una relazione diretta tra «grado di libertà economica» e «tasso di crescita». La conclusione a cui giunge lo studio è, infatti, che i Paesi con la minore crescita soffrono di un male definibile come «paternalismo dirigista degli Stati».

Se negli ultimi vent’anni l’economia del nostro Paese non è cresciuta o è cresciuta poco, ciò è dovuto anche ad un’eccessiva presenza pubblica nell’economia che, da ultimo, è degenerata in «invadenza» in virtù delle politiche economiche interventiste dei due governi presieduti da Giuseppe Conte, fortemente sostenute dal M5S. Certamente queste politiche non avranno la piena adesione di Mario Draghi, un keynesiano molto rispettoso del ruolo del mercato.

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