Quei lavori improduttivi che frenano la crescita

L’ANALISI. I recenti dati sulla crescita dell’economia mondiale prospettano uno scenario meno ottimistico sia per l’anno in corso sia per il 2024.

Le principali ragioni sono note: la ripartenza forte dell’inflazione dopo la pandemia, il conseguente rapido e significativo aumento dei tassi di interesse e un quadro geopolitico più difficile a cui ha contribuito, da ultimo, la guerra in Ucraina. A livello europeo, sono state fatte notare le contrazioni tedesca e olandese e, viceversa, la tenuta italiana che, tuttavia, si posiziona sotto la Spagna tra i Paesi mediterranei. In realtà, le previsioni suggeriscono che il nostro Paese cresca di nuovo meno della media europea già dal prossimo anno. Possiamo dire che con il 2023 siamo poco sopra i livelli di Prodotto Interno Lordo del 2019. Su questo risultato si può dire sia bene sia male. Bene, perché abbiamo recuperato la forte contrazione del 2020 e dopo quattro anni siamo ai livelli del 2019, nonostante la diminuzione della popolazione di quasi un milione di persone e con quelle rimaste percentualmente invecchiate. Male, perché nel 2019 eravamo con la Grecia l’unico Paese europeo a non aver raggiunto ancora i livelli di ricchezza del 2008. Tutti, però, concordano nel dire che la crescita ritrovata è insufficiente.

Oltretutto con un «problema salariale» non da poco da affrontare, cercando di salvaguardare sia la competitività delle imprese sia le disponibilità delle finanze statali. E tutti riconoscono anche che il nostro Paese ha un problema di produttività, che non cresce o che cresce solo marginalmente, soprattutto nella sfera pubblica.

Ma come si fa ad aumentare la produttività? La mia impressione è che, oltre alle tanto agognate riforme e ai conseguenti interventi strutturali, occorra liberare il Paese dal tanto tempo che i suoi abitanti dedicano ad attività del tutto improduttive. Vi porto due esempi piccoli ma concreti. Con il digitale, i rimborsi per le missioni di lavoro nella nostra Università vengono compilati digitalmente su una piattaforma online.

Ebbene, terminata la rendicontazione digitale, il ricercatore deve di nuovo stampare il tutto e consegnarlo fisicamente insieme alle ricevute cartacee al personale amministrativo. Ha fatto quindi un lavoro inutile, digitalizzando la procedura senza eliminare quello che faceva analogicamente prima. Il secondo esempio è meno specifico e riguarda il rinnovo dei passaporti. In passato (l’esperienza dei maggiorenni è ogni 10 anni!) bastava lasciare la documentazione presso il Comune di residenza e passare dopo qualche settimana per il ritiro del passaporto. Ora, invece, la procedura è digitale nel senso che il cittadino deve collegarsi al sito della Polizia, registrare la propria posizione e chiedere un appuntamento per la consegna dei documenti. Appuntamento che, nella maggior parte dei casi, non arriva, a meno che (dicono gli «esperti») non si sia rapidi nel click quando, e non si sa a priori, vengono rese disponibili sul sito delle date. Molti rinunciano e sono così privi di un importante diritto di cittadinanza. Altri cercano soluzioni cosiddette «all’italiana».

Il problema è probabilmente più generale, e riguarda anche situazioni più importanti. Vista l’attualità del tema, consideriamo la questione del nostro personale sanitario che occupa una parte del tempo a compilare moduli; o ai pazienti che, anche per un semplice esame del sangue, firmano un foglio per la privacy, con la soddisfazione dei soli cassetti nei quali viene subito riposto.

È proprio questa la questione del nostro Paese: tutti sono costretti a fare tanto lavoro che non serve a nulla. È un lavoro nascosto, perché un medico non è valutato per il tempo che passa con le carte ma, soprattutto, è un lavoro improduttivo. Partiamo allora dalle tante piccole cose che possiamo cambiare (e non rassegniamoci all’idea che non si possano cambiare!) piuttosto che covarci nei soli massimi sistemi e, forse, potremo pian piano uscire dalle secche nelle quali ci siamo infilati e ritornare a crescere.

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