Referendum, il Pd rischia
di pagare pegno

C’è chi pensa che al referendum del 20 settembre ci potrebbero stupire i «no» alla riforma che taglia il numero dei parlamentari. E c’è chi invece, più verosimilmente, prevede una schiacciante vittoria dei sì, con conseguente trionfo di Luigi Di Maio e soci, i principali sostenitori della riforma costituzionale. Di seguito anche Salvini e Meloni, anche se in misura minore, potranno intestarsi una riforma che hanno appoggiato nelle aule parlamentari. Chi invece rischia di pagare pegno in ogni caso è il Pd. Il partito di Zingaretti, nel corso dei primi tre esami parlamentari previsti per riformare la Costituzione, si è battuto contro la mannaia grillina evidenziandone crudamente non solo le incongruenze tecnico-politiche ma addirittura la pericolosità democratica: riduzione della rappresentanza, avvilimento della funzione parlamentare, delegittimazione delle Camere, ecc. Alla quarta lettura, quella decisiva, i democratici hanno però cambiato radicalmente parere votando a favore tra lo sconcerto di molti dirigenti e militanti.

La ragione del voltafaccia: l’accordo di governo con il M5S che prevedeva uno scambio tra la riforma grillina e una nuova legge elettorale in senso proporzionale che, secondo Zingaretti e i suoi, avrebbe migliorato il brutale taglio di deputati e senatori.

Il problema è che questa legge elettorale nuova - che pure nelle carte è già scritta, si chiama «Germanicum» perché assomiglia al sistema tedesco e ha come unica norma ancora non decisa quella della soglia di sbarramento perché Renzi la chiede inferiore al 5% - ancora non è stata votata né dalla Camera né dal Senato. Zingaretti si accontenterebbe del sì prima del 20 settembre almeno in uno dei due rami parlamentari. Di Maio lo ha rassicurato: «Hai ragione, lo faremo», ma i giorni passano e il voto non si vede. Così cresce il malumore tra i dem che temono di pagare un prezzo troppo alto alle tante giravolte: hanno detto sì ad una riforma che avevano osteggiato con tutte le loro forze; per cambiare opinione hanno siglato un compromesso di cui però non incassano il pattuito, e non solo: se adesso minacciano di lasciare i loro militanti liberi di votare come gli pare (ma davvero poi i militanti obbediscono ancora ai partiti di Roma?) si prendono l’accusa di una doppia contraddizione. Insomma, cosa vuole davvero il Pd? Se vinceranno, come tutto fa pensare, i «sì» alla riforma, Zingaretti non potrà sedersi al tavolo dei vincitori.

Se invece prevarranno a sorpresa i «no», non potrà certo rivendicare la primogenitura delle critiche visto che se è rimangiate. E se poi davvero il «Germanicum» non vedrà la luce? La segreteria Zingaretti insomma si trova ad affrontare un curva pericolosa lungo la sua strada: il 20 settembre non solo c’è questo pasticcio del referendum ma si vota per le regioni e il Pd non è per niente tranquillo sull’esito. I grillini continuano a negarsi ad un accordo anche sostanziale, ovunque tranne che in Liguria dove il patto sul giornalista del «Fatto» Ferruccio Sansa è visto da molti democratici come un errore fatale: il candidato alle regionali ha sempre sparso veleno su di loro. Senza accordi sono in bilico sia la Puglia di Emiliano che le Marche del governatore uscente Ceriscioli accusato di aver fallito la ricostruzione del terremoto del 2016, di fatto mai cominciata. Persino la Toscana potrebbe essere l’occasione per Matteo Salvini per prendersi la rivincita dopo lo smacco in Emilia Romagna. Resta più sicura la Campania del coriaceo De Luca che però non è allineato con Zingaretti. Il centrodestra, sicuro delle vittorie di Toti in Liguria e Zaia in Veneto, potrebbe andare all’assalto di malmesse roccaforti rosse oltretutto infragilite dalla divisione dei partiti di maggioranza. E ancora una volta il prezzo alla cassa lo pagherebbe il Pd. Con quali conseguenze politiche?

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