Regioni, i rischi
dell’autonomia

Avanza, non senza fatiche, il regionalismo differenziato e cioè il riconoscimento per le Regioni che ne abbiano fatto richiesta, a seguito di un’intesa con lo Stato e di una conseguente legge statale approvata a maggioranza assoluta, di forme e condizioni particolari di autonomia, su alcune materie. Le Regioni che stanno negoziando queste intese con il Governo sono Lombardia e Veneto (in cui il procedimento ha preso avvio da referendum) e l’Emilia Romagna, ma il procedimento potrà interessare altre Regioni.

All’esito, si creerebbe una forma di autonomia regionale intermedia tra quella ordinaria e quella speciale. Questo procedimento si colloca nel rispetto della Costituzione che all’articolo 116 disciplina la possibilità di differenziazione, subordinandola al rispetto dell’articolo 119, che regola l’autonomia finanziaria e i principi di perequazione fiscale. Non si ha quindi rottura costituzionale, come invece accaduto con la Catalogna spagnola. Va anche riconosciuto che si è trattato, almeno per ora, di procedimento bipartisan, sostenuto o acconsentito da forze di diversi schieramenti.

Già il Governo Gentiloni aveva stipulato accordi preliminari. L’articolo 116, che apre a questa possibilità, è stato riformato dal centro-sinistra nel 2001. Lo stesso Pd lombardo, e non solo, si è espresso con favore rispetto a questo strumento in cui vede l’apertura di spazi di espressione della vitalità regionale. Regioni a guida dell’opposizione, come l’Emilia-Romagna, vi sono coinvolte. Sembrerebbe dunque una condizione politica ideale. In realtà, le cose non sono così pacifiche ed è diffuso, in certi ambienti culturali e sociali, un forte allarme circa le conseguenze di questo passaggio. Il sindacato, ad esempio, ha manifestato la sua opposizione, perché vede minacciata l’uguaglianza dei diritti. Uguaglianza, a dire il vero, tutt’altro che garantita dall’attuale regime di accentramento politico che ha anzi prodotto polarizzazione delle condizioni di vita e coperto una certa deresponsabilizzazione.

L’attualità non è insomma rosea: il privilegio delle Regioni speciali, non giustificato, almeno nella misura; l’incapacità del sistema tributario di produrre redistribuzione, ecc… Il Comitato bergamasco di difesa della Costituzione ha ospitato, su questo tema, un dibattito tra due studiosi esperti e di diversa sensibilità, G. Bizioli dell’Università di Bergamo e F. Cerniglia della Cattolica. L’occasione del confronto ad alto livello ha lasciato nei pochi presenti (ma dov’è il desiderio di approfondire?) la sensazione di una partita assai complessa e largamente indeterminata. Il riconoscimento di competenze ulteriori alle Regioni non determinerà, nel breve periodo, ripercussioni negative sulle altre Regioni, poiché, per i primi tre anni, a Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna verranno trasferite le risorse che oggi lo Stato spende per quelle stesse competenze oggetto del trasferimento. Nel medio termine, il sistema potrebbe stabilizzarsi se lo Stato adottasse criteri di determinazione dei fabbisogni standard e i livelli essenziali e cioè quegli indicatori che garantirebbero il trasferimento alle Regioni di risorse commisurate alle prestazioni che queste assumono. Il problema nasce, e con esso le incertezze, se lo Stato mancasse, come già successo, in questo compito. È dunque il livello politico, e la sua inaffidabilità, il problema che rischia di non bilanciare adeguatamente uno strumento che di per sé appare pienamente costituzionale e potenzialmente promozionale di autonomia e responsabilizzazione. Politiche sono anche le difficoltà di completamento del processo: riuscirà Salvini a tenere insieme la spinta del Nord-Est con il «taglio» nazionalistico della sua Lega sovranista? Accetterà il M5S, il cui elettorato è concentrato al Sud, di seguire la Lega in questa battaglia?

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