Riforma Mes
tra pandemia
e il bisogno
di realismo

Ma davvero il Governo, nel bel mezzo di una pandemia, con il Natale da mettere in sicurezza, la ricostruzione economica da avviare e con il vaccino da somministrare a 60 milioni di italiani a partire da gennaio, rischia di cadere per il Mes, questo tanto vituperato Mes, uno dei temi più tossici del dibattito politico? Gli occhi sono puntati sul voto di domani alla Camera e al Senato. Fare un po’ di chiarezza aiuta a capire la posta in gioco. Innanzitutto non si vota sul Mes, ma sulla sua riforma, in vista della partecipazione di Conte al Consiglio europeo di giovedì e al Consiglio dei Paesi dell’Eurozona del giorno dopo. Il Mes, Meccanismo europeo di stabilità, è un «prestatore di ultima istanza». In pratica gli Stati di Eurolandia mettono in comune denaro (80 miliardi) e sono pronti a erogarlo (con i dovuti interessi) nel caso che uno di loro si trovi all’ultima spiaggia. Inoltre, potendo emettere titoli con la garanzia di tutti gli Stati che ne fanno parte, il Mes può raccogliere sui mercati finanziari fino a 700 miliardi di euro.

Per ricevere l’aiuto, uno Stato deve accettare un piano di riforme la cui applicazione sarà sorvegliata da Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale. Il piano di riforme di solito prevede misure molto impopolari, come taglio alla spesa pubblica, alle pensioni, privatizzazioni, liberalizzazioni e flessibilizzazione delle leggi sul lavoro, per rendere nuovamente sostenibili i conti pubblici. Grecia, Cipro, Portogallo e Irlanda che hanno usufruito di programmi di aiuto del Mes, ne sanno qualcosa, anche se oggi il vento è cambiato e tutti i Paesi, compresi quelli del Nord, hanno messo fine alle politiche rigoriste. Tutto questo ci dice perché mai dovremmo rinunciare a riformarlo.

L’Europa del Sud ritiene il Mes un’istituzione draconiana, quella del Nord un facile paracadute per uscire da una politica spendacciona. La riforma che si voterà questa settimana cerca un compromesso. I Paesi «mediterranei» hanno ottenuto una vittoria nella trattativa sul «backstop» per il Fondo di risoluzione unico del Mes che aiuta – fino a 55 miliardi - le banche in difficoltà. I «rigoristi» invece vogliono rendere più facile «ristrutturare» il debito pubblico di un Paese che chiede aiuto. Così facendo un Paese in difficoltà potrebbe restituire meno di quello che deve ai suoi creditori, che è una cosa buona; ma c’è anche la possibilità che i creditori privati (come i Fondi internazionali) finiscano per chiedere interessi più alti ai Paesi che percepiscono più a rischio, come l’Italia.

Tutto questo ha portato una serie di convulsioni dentro e fuori la maggioranza. In teoria si vota sì o no a una comunicazione di Conte. Ma sotto sotto covano i pugnali. Una fronda interna ai Cinque Stelle, che hanno sempre visto il Mes come il fumo negli occhi, strumenti delle élite per imporre misure drastiche e sottrarre sovranità, vuole che il Governo voti no. Italia Viva e il Pd non accettano ripensamenti. In questo clima si inserisce anche il nodo delle linee guida del Recovery Fund, il piano di finanziamenti per la ripresa economica dagli effetti della pandemia (la task force messa in campo da Conte non piace a Renzi). Conte da parte sua non ha mai nascosto la sua contrarietà al Mes, ma si appella alla «realpolitik» e chiede chiarezza per presentarsi a Bruxelles con un mandato chiaro, soprattutto in vista del vero piatto sul tavolo, quello del Recovery Fund, quello sì veramente cruciale per la ricostruzione del Paese. Vedremo tra poche ore se la fronda è destinata a sparpagliarsi e a ridursi a una decina di franchi tiratori o farà cadere (ipotesi alquanto remota ma in Italia non si sa mai) questo esecutivo nel bel mezzo di una pandemia.

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