Salari, nodi da sciogliere

L’ANALISI. La festa del lavoro è quest’anno foriera di una riflessone alla luce delle dinamiche economiche recenti. Il 2022 è stato un anno positivo per il nostro Paese.

Per diversi motivi: si è completato il recupero della ricchezza creata dopo la caduta del 2020, l’anno della pandemia; vi è stata una ripresa consistente dell’occupazione, con tassi record per quanto ancora molto inferiori alla media europea, e una riduzione della disoccupazione. Da ultimo, si sono svolte le elezioni politiche con l’espressione di una chiara maggioranza e un passaggio delle consegne ordinato e degno di un paese democratico maturo.

Non sono mancate, tuttavia, anche le preoccupazioni, prima fra tutte l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia con una guerra alle porte dell’Europa che determina tuttora morti e sofferenze e tensioni negli approvvigionamenti energetici. Sul piano economico, dopo un decennio, una ripresa forte dell’inflazione e la conseguente crescita, rapida e consistente, dei tassi di interesse. Nel 2022, i prezzi al consumo hanno infatti registrato una crescita in media d’anno dell’8,1%, segnando l’aumento maggiore dal 1985.

Recentemente, Eurostat ha pubblicato i dati relativi alla crescita dei salari nei vari paesi europei tra il 2022 e il 2021. A fronte di una variazione mediamente inferiore all’inflazione, sorprende il dato italiano, agli ultimi posti; solo Malta, Finlandia e Danimarca hanno fatto peggio. In altri termini, l’incremento medio dei salari (salari orari per le imprese con più di 10 dipendenti) si è fermato al 2,3%, contro un 4,4% della Germania e un 3,7% della Francia (che però ha avuto un’inflazione 2022 «solo» del 5,9%). Aldilà degli effetti che una tale differenza, se non colmata, può produrre nei mesi a venire, la domanda che ci si pone è il motivo di tale situazione. Non già il vedere incrementi salariali inferiori all’inflazione (è così in tutta Europa e ciò evita la cosiddetta «spirale» tipica dei tempi della cosiddetta «scala mobile») ma vedere il nostro Paese così indietro.

C’è qualcosa che sfugge e che comunque preoccupa. Forse il dato di Eurostat non coglie le specificità italiane? Forse il costo orario non tiene conto della flessibilità del nostro Paese che lavora di più per compensare la riduzione del potere d’acquisto insita in un costo orario che non si adegua all’inflazione? O forse il problema è semplicemente di lunga data.

In generale, dal 1970 ad oggi, il lavoro dipendente ha perso peso nel reddito prodotto da paesi europei. Secondo le stime riportate recentemente dall’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani, solo negli ultimi anni si è vista una leggera ripresa dal punto più basso raggiunto all’inizio del 2000. L’Italia, inoltre, si è via via differenziata dagli altri paesi per avere meno occupati e, tra questi, meno lavoratori dipendenti e più lavoratori autonomi. Un altro elemento che balza agli occhi è l’aumento del peso delle rendite immobiliari sul reddito complessivo. Oggi queste valgono circa il 13,% del Pil e sono cresciute significativamente nel tempo (erano il 5% nel 1980). Occorre sottolineare che se le rendite immobiliari crescono più velocemente dei redditi da lavoro, le disuguaglianze tra le persone sono destinate ad aumentare, ceteris paribus, a favore di chi è proprietario di case o terreni.

Concludendo, ci sono una struttura e un trend che l’impennata inflattiva hanno reso più evidenti. Il tema è così serio che non merita di essere strumentalizzato politicamente. Merita però di essere discusso e rappresenta un banco di prova per un Governo come quello attuale che si annuncia di legislatura. Si affrontino le ragioni di tale situazione, si eviti di chiedere solo più risorse allo Stato (troppo facile e anche controproducente), si propongano soluzioni innovative (il legame con la produttività, forme di condivisione dei profitti di impresa, ecc.) ma non si faccia finta di niente. In un momento nel quale la denatalità inizia a mordere e riduce la popolazione attiva (e forse, in un futuro breve, anche la domanda di immobili) non premiare il lavoro è il torto maggiore che possiamo fare ai giovani e alla nostra Costituzione.

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