Sanità, risposte
ai bisogni diffusi

Bisogna andare cauti a trarre da una situazione di emergenza - e quando l’emergenza è ancora viva - delle conclusioni generali, poco ponderate. L’emergenza non è fisiologia, anche se l’ordinamento strutturale, specie nella sanità, non può non prevedere che un’emergenza si verifichi e la stessa emergenza può, stressando l’organizzazione, metterne a nudo le carenze. Una reazione incauta e, a mio parere, sbagliata è quella, pur diffusa, che vorrebbe riportare in capo allo Stato l’organizzazione dei servizi sanitari, sul presupposto del fallimento della prova gestionale da parte delle Regioni; o anche la critica rivolta al principio di sussidiarietà, di cooperazione tra società e istituzioni.

Non è questa integrazione, preziosa, a dover essere messa in discussione, quanto il criterio ordinatore dei rapporti pubblico-privato e le regole di ingaggio (accreditamento) del privato, oggi disegnate secondo un modello, assai approssimativo, di quasi-mercato.

Per concentrarsi sul tema del ruolo dello Stato, ho dei forti dubbi che in questa crisi avremmo avuto una reazione più tempestiva ed efficace se fosse stata governata dai ministeri. E non per sfiducia nelle capacità dell’attuale ministro della Salute. Ma sulla base di due fattori: uno strutturale e uno più contingente. Strutturalmente, è la Costituzione, sin dai suoi principi fondamentali, a promuovere nei servizi il più ampio decentramento, e anzi l’autonomia, perché mira a un’integrazione profonda tra azione sociale (civica) e apparati amministrativi. Della salute la Costituzione - ma anche i documenti internazionali - promuove un concetto relazionale, in connessione con le condizioni socio-economiche, con l’ambiente, con l’alimentazione ecc…Questa concezione è bene espressa dalla definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità, per la quale la salute è «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non consiste soltanto in un’assenza di malattia». A seguito della riforma del 2001, la stessa Costituzione attribuisce (art. 117) ora la competenza legislativa in ambito di «tutela della salute», non più di «assistenza sanitaria e ospedaliera». Con riferimento invece alla contingenza dell’attuale crisi, ho trovato illuminante la critica del virologo Galli che ha parlato di fallimento della medicina territoriale.

Combinando i due elementi, mi pare emerga una lezione e cioè che il sistema ha sì largamente mancato, ma non per un difetto di accentramento, all’opposto per una mancanza di sensori e di collegamento con il territorio. È questa integrazione con il territorio a dover far ripensare il sistema, anche rispetto al modello lombardo. E, del resto, la logica dell’autonomia non è certo quella di premiare potentati locali, più o meno virtuosi, ma quello di avvicinare i servizi al territorio, per coglierne bisogni, aderirvi e organizzare una capacità di risposta che metta in rete le energie che quello stesso territorio esprime. Il limite che questa crisi ha evidenziato è la povertà di risorse territoriali, integrate con i servizi sociali e socio-sanitari, e la conseguente concentrazione dell’attenzione su interventi specialistici e ospedalieri. La qualità di un servizio non si giudica su punte di eccellenza, ma sulla capacità di rispondere ai bisogni diffusi. Fin dai decreti legislativi di aziendalizzazione delle vecchie Ussl degli anni Novanta si è perseguito un disegno di efficienza gestionale (affidata però a manager di stretta nomina politica) e si è andato progressivamente perdendo il rapporto con gli enti locali e con i Comuni in particolare, la cui collaborazione sarebbe preziosa per la rilevazione dei bisogni e per la programmazione dei servizi, integrati con una rete assistenziale. In alcune realtà regionali, il modello delle Case della Salute va in questa direzione. In questo legame con il territorio e con i Comuni, risiede la possibilità di ridare sostanza all’autonomia delle Regioni, altrimenti mero luogo alternativo di potere e non occasione di partecipazione.

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