Santi e defunti
Giorni dell’anima

uno e due di novembre. La solennità di tutti i santi e la commemorazione di tutti i defunti. Un accostamento cristiano un po’ azzardato, che si ripropone ogni anno perché in ciascuna di queste feste e nella loro vicinanza c’è depositato qualcosa che fa bene all’anima. C’è il primo novembre, la solennità di tutti i santi. Ogni santo ha il suo giorno, ce lo ricorda anche il calendario appeso nel tinello dei nonni. Ma oggi li si celebra tutti insieme. Oggi si festeggia la santità: il fatto cioè che qualcuno, nella vita ce l’ha fatta. Ce l’ha fatta a non odiare nonostante la solitudine e l’amarezza che lo hanno ferito. Ce l’ha fatta a restare generoso nonostante la paura di essere fregato. Ce l’ha fatta a continuare a credere nell’amore nonostante le delusioni e le cicatrici. Ce l’ha fatta a vivere di quella felicità che noi tutti cerchiamo di spremere dalla vita. È la speranza dell’esistenza: vivere santi, cioè «divinamente». Una speranza che non è riservata ad alcuni eroi del passato, ma che è una chiamata possibile. Ancora. Per ciascuno. Una chiamata che ci rende ricchi.

E poi, c’è il due novembre. C’è un qualcosa di anomalo nella commemorazione di tutti i defunti. Perché, se c’è qualcosa che mai se ne va dalla nostra memoria, sono proprio i nostri cari che ci hanno lasciato: in questo giorno c’è qualcosa che va oltre la messa in comune delle lacrime dentro cui ciascuno conserva i lividi lasciati dal passaggio traumatico della morte.

Innanzitutto c’è un debito. Noi siamo legati, nel bene e nel male, a chi c’è stato prima di noi. È un debito di generazione, di gratitudine e di destino. È ciò che ci rende solidali con tutti gli uomini e le donne del pianeta, e suggella il patto con chi ci ha preceduto e chi verrà: siamo tutti frangibili, e per questo degni di rispetto. Perché abbiamo una comune eredità che, al di là dei paraventi e delle parole di cui ci ammantiamo, ci rende poveri. Condividiamo la povertà del dover morire e vedere anticipata quest’esperienza dentro la morte di qualcuno di caro, con cui se ne va, in silenzio, anche una parte di noi. Il due di novembre, la memoria dei defunti di tutti e di ciascuno, apre la possibilità di abbracciare il dolore degli altri, così diverso e così simile al mio.

Ci sono poi due parole italiane che custodiscono la presa della vita su ciò che cerchiamo di trattenere perché non scivoli nell’oblio della morte. Se non lo facessimo, non saremmo esseri umani. Parliamo di «non dimenticare» e di «ricordare»: due espressioni che nell’uso corrente impieghiamo volentieri come sinonimi, ma che in realtà ricordano due legami diversi, altrettanto importanti. «Dimenticare» contiene la parola «mens», ha a che fare con la testa. «Ricordare» è un riportare al “cor”, è un fatto di cuore e di affetti. Mente e cuore, pensieri e speranze: tutto ciò che siamo, aggrappato a ciò che non vorremmo ci venisse portato via. E ci sembra una lotta impari: mente e cuore fragili di fronte all’irruenza cinica e ineluttabile della morte. Una battaglia amara, perché non si può vincere. Ma che non si può rinunciare a combattere.

Si intravede qualcosa del senso cristiano di questo giorno: rinnovare la consapevolezza e la speranza che nella storia agisce ed è presente Dio. I defunti vivono un po’ nella nostra mente e nei nostri cuori; ma vivono davvero nella mente e nel cuore di Dio. È la sua memoria e il suo ricordo che trattiene i nostri cari, e un giorno anche noi, dalla forza che tutto disperde e tutto dimentica. Lui che resta per sempre e ha cara ogni vita, trattiene vive le cose che sono nate. Lui, che ci ha già tratto una volta dal buio del nulla, dalla possibilità di non esistere, ci trattiene per sempre dal nulla della morte sopra cui siamo sospesi: la sua memoria e il suo cuore sono ciò che oggi si ricorda. Sono ciò che vince la morte e che dà senso al nostro non dimenticare.

È dunque un giorno di preghiera. Sul silenzio delle cose, che tutto avvolge, si erge una parola fragile, come quella della preghiera. Parole di uomini in cui riposa la speranza e la forza di una parola di Dio.

Il senso di questi due giorni si riunisce qui: nella povertà della morte si apre la possibilità inestimabile di una vita santa. La memoria e la preghiera per chi ci ha preceduto sono uno sguardo al passato che mette parole nuove sul futuro che ci sta davanti: guardare ai santi e ai nostri defunti allena lo sguardo a non ristagnare nelle urgenze dell’oggi, ma a chiedersi quale scia si voglia lasciare con la propria esistenza.

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