Se la piazza rivendica
non aumenti, ma futuro

Mimì metallurgico ha incrociato le braccia. Sciopero dei metalmeccanici di otto ore con manifestazioni e cortei a Napoli, Firenze e Milano. Valeva la pena, in un momento così delicato per la nostra economia, in particolare per le industrie manifatturiere, di cui gli operai di questo settore sono il fulcro? Forse l’epoca degli scioperi, strumento ottocentesco di rivendicazioni soprattutto salariali, andrebbe rivisto, anche perché la sua efficacia si è logorata nel tempo. Ma a parte queste considerazioni, va detto che Fim, Fiom e Uilm hanno rivendicato solo marginalmente aumenti di stipendio o altro, ma hanno chiesto al governo e alle imprese di mettere al centro soprattutto il lavoro. È questa l’inquietudine che ha mosso centinaia di migliaia di lavoratori a sospendere la propria attività.

La lotta di classe c’entra poco. Anche perché tutti i sondaggi ci dicono che la maggior parte dei metalmeccanici ha abbandonato la sinistra (qualunque sinistra) da tempo e oggi (comprese le ultime elezioni) vota Lega, soprattutto al Nord. Nei recenti sondaggi s’avanza una strana figura, spiegava recentemente il politologo e sondaggista Nando Pagnoncelli: l’operaio che vota Lega, è iscritto alla Cgil e va a Messa la domenica.

Lo slogan che accompagnerà i cortei è «Futuro per l’industria». Evidentemente la classe operaia ha paura di perderlo, il lavoro. Quello di ieri infatti è stato uno sciopero contro la politica governativa che non sblocca i cantieri, che rinuncia alle grandi opere, che si impantana sulla Tav. Persino dalla catena di montaggio si percepisce la stasi sul mondo dell’industria: non si vedono le nuove infrastrutture, che producono commesse e risorse per l’economia. Diciamo che Keynes non è proprio l’economista preferito di questo governo (almeno di metà della maggioranza che lo sostiene, quella «gialla»).

Dunque quella di ieri è stata una protesta contro l’esecutivo, e non contro gli imprenditori, la tradizionale controparte che invece in questo caso è perfettamente allineata con questa visione e la si potrebbe tranquillamente vedere sfilare idealmente in mezzo ai cortei di bandiere dei sindacati. Dice il neo segretario della Cgil Landini, che proviene proprio da quel mondo operaio, che «c’è bisogno di una politica industriale degna di questo nome che metta al centro il lavoro, gli investimenti e la lotta alle ingiustizie sociali, a partire da una vera riforma fiscale, una lotta all’evasione fiscale». E Annamaria Furlan, da Firenze, sostiene che la «linea economica del governo va cambiata radicalmente». Non piace ai sindacati la flat tax, che «premia i ricchi», non essendo progressiva. E nemmeno il reddito di cittadinanza che non crea lavoro ma assistenzialismo.

«Abbiamo un sogno nel cuore che si chiama lavoro», gridano le tute blu a Napoli. La stagione non è certo facile, vista la crisi di molte aziende in Italia (la Whirpool a Napoli, l’ex Ilva in Puglia, due casi eclatanti). Un combinato disposto in cui si mescolano mancati investimenti, decisioni transnazionali che arrivano da lontano, poco attente al territorio, dopo che l’Italia è diventata una terra di conquista dove fare «shopping» di aziende, cambiamenti radicali dovuti al progresso digitale che sostituiscono gli uomini con i robot o li «robotizzano», gestione selvaggia degli accordi aziendali. Il lavoro è il grande assente dal futuro dell’Azienda Italia. A seconda delle vertenze, dicono i sindacati, ci sono quasi 300 mila lavoratori a rischio nei prossimi mesi. Dunque rilancio degli investimenti, pubblici e privati. Un programma cui potrebbero tranquillamente aderire anche gli imprenditori.

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