Se l’Europa si smarca dal pressing americano

Il commento. La visita di Ursula von der Leyen a Washington ha tre obiettivi: acquisire consapevolezza del ruolo giocato nel mondo dall’Unione Europea, difendere il benessere acquisito in Europa e poi «Realpolitik». Si tratta di far capire all’amico americano che l’Europa nonostante la gratitudine verso il suo alleato e protettore non è ancora il 51° Stato dell’Unione. In questa interlocuzione la differenza la fa la nazionalità.

La presidente della Commissione è tedesca e quindi personifica agli occhi americani la Germania in formato europeo. Non è questione di poco conto. Se togliamo la Germania dall’Ue e ne facciamo, per paradosso, una sorta di Brexit versione germanica, crolla tutto il castello di carta costruito negli anni attorno all’Europa. Lo sanno tutti che se la Germania non dovesse più garantire il debito nel frattempo accumulato da Bruxelles ci sarebbe il fuggi-fuggi sulle piazze finanziarie. Per non parlare delle ripercussioni sui debiti nazionali dei singoli Stati. La Francia a Washington è tollerata perché al fondo non pericolosa per gli equilibri geostrategici del mondo. Macron si è strappato le vesti quando su suggerimento americano l’affare per le forniture dei sommergibili all’Australia è andato in fumo ma poi si è messo il cuore in pace.

Contro la solidarietà attiva di Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda non c’ è partita. È il dominio anglosassone nel mondo, sostenuto anche da una rete di servizi e punti di ascolto che appunto vengono chiamati «the five eyes», i cinque occhi. Anche in Germania hanno imparato a lasciare alla vanagloria gallica tutto il superfluo possibile. Poi nelle decisioni che contano è Berlino che ha l’ultima parola. In questa visita a Washington quindi Ursula von der Leyen va a dire quel che il cancelliere Olaf Scholz in visita a Washington due settimane fa non poteva dire apertamente. E cioè che Putin per gli europei e per i tedeschi in particolare non è solo un aggressore ma anche un vicino senza l’Atlantico che fa da cuscinetto. Alle parole del presidente americano che parla di «grande battaglia fra democrazia e autocrazia» i tedeschi rispondono che l’aiuto all’Ucraina è garantito fino al necessario. Il che vuol dire che l’obiettivo può anche essere la destituzione di Putin ma non il fine ultimo. La storia tedesca insegna a non calpestare il suolo russo.

E poi c’è la Cina con la quale la Germania ha un rapporto vitale per la sua economia. Per gli Usa è il rivale per eccellenza per i tedeschi è prima di tutto un cliente. Per il settore chimico, della meccanica e dell’automobile la riduzione del mercato di sbocco cinese diventa un problema. Vuol dire togliere forza all’economia ed esporla al ricatto americano. Vieni in America e investi qui così il prodotto diventa made in Usa e godi di tutte le agevolazioni del fisco, dei costi energetici, dei permessi amministrativi e burocratici. Questo il messaggio.

In Germania le grandi aziende non sono insensibili al richiamo dell’uomo con il cappello a stelle e strisce che ammonisce: salviamo l’Occidente. Calvin Coolidge presidente americano di un secolo fa, l’ha scritto sulla pietra: «The chief business of America is business» (gli affari che contano dell’America sono gli affari). A Ursula von der Leyen alla fine è riuscito di portare a casa il risultato. Le sovvenzioni americane garantite all’auto elettrica varranno anche in Europa. Così Volkswagen, Mercedes, Bmw e il resto della compagnia potranno salvarsi dalla Tesla di Elon Musk e dai cinesi. Per Washington però una conferma che la Germania è sotto schiaffo e il pericolo che li angosciava è bandito. Un’Europa a guida tedesca con influenze russe e cinesi non c’è più.

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