Se lo sport caccia i russi e la lezione di Mandela

«Se portassimo via il rugby agli afrikaner, daremmo prova di essere come i bianchi temevano che fossimo. Noi dobbiamo essere migliori, dobbiamo sorprenderli con la comprensione, con la generosità. E costruire questa Nazione con ogni mattone possibile».

Quel mattone con cui Nelson Mandela voleva costruire il suo Sudafrica era il rugby, erano gli Springboks, la Nazionale bianca che il mondo nero sudafricano avrebbe voluto cancellare dallo sport, una volta preso il potere e chiusa la pagina dell’apartheid. È la storia che Clint Eastwood ha meravigliosamente raccontato nel film «Invictus». La Nazionale viene «salvata» da Mandela e poi vince, in una «favola» unica nella storia dello sport, i Mondiali di rugby che si tennero proprio in Sudafrica, nel 1995, battendo in una finale incredibile persino gli All Blacks neozelandesi. È la storia che insegna che lo sport può essere - deve essere - strumento di inclusione, non di esclusione. Strumento che smussa gli spigoli, anziché renderli aguzzi. Strumento che avvicina, anziché allontanare.

È la storia che insegna che lo sport può essere - deve essere - strumento di inclusione, non di esclusione. Strumento che smussa gli spigoli, anziché renderli aguzzi. Strumento che avvicina, anziché allontanare.

Se ne discute in questi giorni a proposito della scelta di Wimbledon di escludere dal tabellone tennistico gli atleti russi e bielorussi. «Colpevoli», agli occhi degli organizzatori, di non condannare l’aggressione russa - ben vista dalla Bielorussia - all’Ucraina. Chi condannasse potrebbe giocare, assicurano. A Londra la fanno facile. Fosse facile, per chi quasi sempre ha famiglia in Russia, dove basta una qualsiasi protesta simbolica per rischiare anni di carcere, prendere carta, penna, microfono o social network e dichiarare la propria distanza da Putin e dalla guerra. Fosse facile far coincidere quel che probabilmente pensano le coscienze con quel che di pubblico si può fare e dire. È la medesima retorica che per decenni abbiamo sentito in Italia sull’omertà delle popolazioni del Meridione sulla criminalità organizzata. E ora che la criminalità ha le sue radici anche nel profondo Nord, lo vediamo: fosse facile parlare, denunciare. E’ sempre facile quando tocca agli altri, quando la paura della conseguenza non ti tocca da vicino.

Facile, invece, è la scelta di Wimbledon di cacciar fuori i russi e i loro «complici» bielorussi dal torneo. Facile è far pagare il prezzo della guerra al primo che passa, ancorché del tutto incolpevole ma ricco e famoso

Facile, invece, è la scelta di Wimbledon di cacciar fuori i russi e i loro «complici» bielorussi dal torneo. Facile è far pagare il prezzo della guerra al primo che passa, ancorché del tutto incolpevole ma ricco e famoso. Dall’invasione in poi s’è visto e sentito di tutto, dall’esclusione dei testi di Dostoevskij in giù. Le colpe dei padri non ricadano sui figli, ma nemmeno quelle dei presidenti sui suoi cittadini.

Dicono i «falchi» che nelle sanzioni contro Putin deve rientrare persino questo, che tutto può servire per indurlo alla ragione. Illusi. Usando lo sport come strumento di pressione se ne abusa, se ne distorce il senso più vero e profondo. I tennisti, come i calciatori, gli atleti (pensiamo ai paralimpici esclusi dai giochi invernali di Pechino...) sono parte del popolo russo, e il popolo russo - se non in una percentuale infinitamente piccola sui circa 140 milioni di abitanti che vanno da San Pietroburgo a Vladivostok - non ha alcuna responsabilità sulle scelte del suo presidente. Proprio il popolo pagherà la ricaduta d’odio per questa guerra, per le ferite che resteranno aperte per generazioni.

Nello sport dovrebbe sempre esserci la possibilità di una stretta di mano. Il centrale di Wimbledon sarebbe stato un teatro meraviglioso in cui mostrare a Putin che i suoi atleti restano i benvenuti, perché «noi siamo migliori». Perché non siamo come lui, perché non prendiamo di mira chi non ha colpe. E perché, in fondo, mentre gli Stati Uniti bombardavano il Vietnam, l’americano Stan Smith batteva in finale il romeno Ilie Nastase. Era il 1972. Abbiamo usato 50 anni per uscirne peggiori?

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