
L'Editoriale
Mercoledì 16 Aprile 2025
Solidali col dolore dell’altro, la vera pietà
ITALIA. «Aiutare a morire per pietà». Questo il parere di Giuliano Amato in una recente intervista su «la Repubblica». Per uscire dall’impasse che contrappone due principi inconciliabili come l’autodeterminazione e l’indisponibilità della vita bisognerebbe «mettere al centro un fattore comune che è la pietà umana».
Il riferimento è alla legge in discussione al Senato sulla «Morte volontaria medicalmente assistita», per poter giungere a un accordo, Amato, propone di lasciar perdere «i principi» e partire dalla necessità di accogliere la richiesta di chi vuole morire come «atto di pietà». In questo modo non si violerebbe la dignità della persona (che non può mai essere uccisa), ma si darebbe luogo a una forma di «azione solidale» nei suoi confronti.
La questione è delicata perché da una parte c’è la sofferenza di un ammalato che chiede di essere aiutato a morire e dall’altra c’è il dovere di chiederci se è stato fatto tutto il possibile perché, alleviando il dolore e garantendo adeguata assistenza, possa ancora desiderare di vivere. Chi è favorevole al suicidio assistito rivendica il diritto a decidere della propria morte, come si è deciso per tutto il resto. Rimane però da capire i motivi per cui si giunge a chiedere di anticipare la morte. Stanchezza psicofisica, senso di abbandono, vuoto interiore, mancanza di prospettive? Spesso la malattia finale non fa altro che rivelare una perdita di senso avvenuta molto prima. Carl Gustav Jung dice che «non è il mistero della morte che siamo chiamati a sciogliere: piuttosto quello della vita». Nel momento più buio c’è ancora speranza? C’è ancora una luce che ci invita fidarci e affidarci a quel «bene» che da sempre desideriamo?
È come se la comunità umana ti dicesse: «La tua vita è talmente preziosa che tutti la vogliamo difendere, anche da te stesso, se serve»
C’è poi il problema di chi deve fornire l’assistenza per la morte. Pare ovvio pensare ai medici in quanto qualificati a certificare che ci siano i requisiti clinici previsti dalla legge. Quindi offrono un supporto tecnico per la decisione e l’esecuzione. Ma nella fattispecie il medico deve solo «essere presente al decesso» o deve «dare corso alla procedura di morte»? Questo punto non è chiaro nella legge in discussione al Senato. Inoltre credo che qui si dia la concreta possibilità che la decisione del malato e la decisione del medico non coincidano. Siamo di fronte all’alternativa: o il richiedente è signore della coscienza dell’operatore sanitario o l’operatore è signore della vita del malato. Le due soluzioni riducono uno dei due a «oggetto» della propria volontà, perdendo la relazione. Questo a mio parere è l’inaccettabilità del suicidio assistito e dell’eutanasia: da una parte si autorizza un’azione in sé negativa e che non appartiene alla deontologia medica e dall’altra si attribuisce un potere su sé stessi che va contro il senso del vivere. Se viene modificato l’articolo 580 del Codice penale che vieta l’istigazione o l’aiuto al suicidio c’è il rischio che non solo i medici, ma anche altre persone si sentano autorizzate a favorire la morte su richiesta. La punibilità per chi agevola il suicidio è una garanzia di tutela. Un protezione legale necessaria per tutelare la dignità di tutti, a partire dai più vulnerabili. È come se la comunità umana ti dicesse: «La tua vita è talmente preziosa che tutti la vogliamo difendere, anche da te stesso, se serve». Quando si parla di rispetto della vita non lo si fa perché la vita è una cosa «sacra», ma perché è in gioco un rapporto di fiducia reciproca da uomo a uomo. Lo spirito che anima la nostra convivenza esige la cura e la compassione, diversamente l’altro non è più fratello o sorella.
L’idea della legittimità del suicidio sta entrando nella mentalità della gente come una risposta drastica, ma efficace, al problema del dolore e della morte. Il rischio è allora quello di far passare per «pietà», la difficoltà o il disagio a stare vicino ad un essere umano prossimo alla morte. La vera compassione rende solidali con il dolore altrui. Come Simone di Cirene che si fa carico di una sofferenza non sua, quella di Gesù.
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