Spine nel fianco
dello stratega

Il tentativo di Giuseppe Conte è quello di sottrarre la manovra economica ai giochi tattici dei partiti. Tanto più ora che il testo inviato a Bruxelles non convince del tutto la Commissione intenzionata a ricevere chiarimenti sulle coperture (a partire dall’immaginifica cifra di sette miliardi di recupero dell’evasione fiscale). È esattamente questo che il presidente del Consiglio ha ripetuto ieri ricevendo ad uno ad uno i partiti della coalizione in una sorta di giro di consultazioni che ha preceduto il vertice collettivo della serata. Così facendo Conte, confermando una consumata abilità tattica, sembra sia riuscito a sminare la maggior parte degli ostacoli che si stavano frapponendo al cammino della legge di Bilancio approvata solo pochi giorni fa, sia pure «salvo intese» dal Consiglio dei ministri. E soprattutto Conte ha potuto rimettere sui binari il suo rapporto con Luigi Di Maio che nel fine settimana sembrava stesse per naufragare.

Il capo dei 5Stelle, che non nasconde più l’irritazione per come si muove colui che considera una sua creatura, non poteva accettare che proprio Conte gli dettasse degli ultimatum («Chi non ha spirito di squadra è fuori del governo») quando lui esponeva le critiche grilline al testo del Tesoro. E così il capo pentastellato ha lanciato a sua volta un avvertimento: o si accettano le nostre condizioni su partite Iva, commissioni bancarie e manette agli evasori, o il governo va a casa. Che è poi, a pensarci bene, una minaccia piuttosto a vuoto dal momento che chiunque capisce che il M5S tutto vuole in questo momento tranne che tornare alle urne che dimezzerebbero voti e seggi parlamentari (gli ultimi sondaggi lo danno al 17 per cento, la metà di quanto raccolto alle politiche del 2018). E tuttavia Conte non può ignorare un richiamo dal partito che lo ha creato presidente del Consiglio. Per cui le condizioni del M5S vengono in qualche modo accolte dal Tesoro al pari di quelle dell’Italia Viva di Renzi tranne, si sa, l’abolizione di Quota 100.

Anche Renzi è una spina nel fianco dell’inquilino di Palazzo Chigi che addirittura sospetta che il senatore di Rignano stia brigando per tornare a sedersi sulla poltrona numero uno del governo. Probabilmente Italia Viva in questo momento – e lo si è visto alla Leopolda – ha bisogno soprattutto di conquistare visibilità e centralità a scapito del partito di provenienza, il Pd, che sembra ora quello con minore possibilità di manovra (e di ricatto, usiamo la parola giusta).

La composizione dei vari interessi di partito in qualche modo insomma si trova, anche perché ciò che vale per Di Maio a proposito di elezioni anticipate, vale per tutti gli altri: se si andasse a votare il Pd avrebbe un risultato altrettanto scarso di quello del 2018 e Renzi getterebbe nella mischia una formazione ancora acerba e comunque ferma nei sondaggi al quattro per cento dei voti: poco, troppo poco.

Per cui tutti hanno interesse a mandare avanti il governo, solo che ognuno vuol farlo a modo proprio, e Conte è costretto ad una continua mediazione (peraltro sperando che la medesima giovi alla sua futura carriera politica). In ogni caso il primo test della coalizione giallo-rossa arriverà domenica prossima quando andranno a votare gli umbri, già fedelissimi sostenitori della sinistra e oggi pencolanti piuttosto verso la Lega. Se vincerà la candidata governatore di Salvini, la maggioranza di governo rientrerà in fibrillazione; se invece prevarrà il candidato di grillini e sinistre, Conte potrà andare avanti ancora un po’. Fino al voto in Emilia Romagna in gennaio.

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